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La mamma con il tumore: come lo vive il bambino

16/06/2008

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Il sole sta perdendo tutti i raggi”. Da mesi i disegni di Cristina, 6 anni, hanno un tema dominante: il sole malato. In parallelo al peggioramento della mamma, di 36 anni, anche i soli disegnati dalla bambina perdono colore. Ma soprattutto perdono raggi. Perché il “suo” sole, la mamma, è malata. La signora ha un tumore molto aggressivo del collo dell’utero causato da un Papillomavirus oncogeno. Una conizzazione sei mesi prima aveva fatto sperare che un trattamento conservativo potesse essere sufficiente di eradicare il male. Invece il tumore ha galoppato. Non ha nemmeno potuto essere operata. E’ stata scelta la radioterapia, pesantissima per lei. Nonostante sia una donna coraggiosa, la debolezza estrema l’ha tenuta a letto per due mesi. Ora si sta riprendendo lentamente, ma gli esami dicono che il tumore non è stato eradicato completamente.
Come vive una bambina il tumore della mamma? Come lo può vivere un bambino? Si parla ancora poco dell’impatto del tumore sulla psiche dei pazienti, e pochissimo dell’effetto che una malattia aggressiva dei genitori ha sui figli, specie se piccoli, soprattutto se colpisce la madre. I bambini sentono le atmosfere di casa, con le loro sensibilissime antenne. Sentono l’ansia, la tristezza, la preoccupazione, la disperazione. Scrutano i visi preoccupati, le voci che diventano sommesse quando parlano di quella cosa. Poi la mamma sparisce, per giorni, a volte per settimane. Non sempre viene detto che la mamma è in ospedale. Molti scelgono la bugia del viaggio. Soprattutto se è necessario un ricovero in un ospedale lontano, non sempre il bambino può vederla. Oppure sono i parenti a ritenere che sia meglio non farlo. Lo pensano in buona fede, soprattutto se le cure sono pesanti, se deve fare la chemioterapia, o se un trapianto di midollo suggerisce di tenere il bambino lontano da lei dopo l’irradiazione completa. Il bambino allora si scontra con l’assenza. Forse mitigata dalla sua voce al telefono. Ma è un’assenza pesante. “Perché mi ha abbandonato?” pensa il bambino. Per lui, o per lei, l’assenza della mamma coincide con la sensazione più atroce per un piccolo: l’esser stato, appunto, abbandonato. A questa sensazione il bambino può rispondere in molti modi: deprimendosi a sua volta. Può allora esprimere il suo dolore con sintomi gastrointestinali (coliche e “mal di pancia”). Rifiutando il cibo. Oppure con insonnia e incubi. Con un aumento dell’ansia e dell’irritabilità. O dell’aggressività, per attrarre l’attenzione. Per sentire di essere ancora importante per qualcuno. Per protestare contro quest’abbandono inspiegabile. E se la mamma torna, può accoglierla sottraendosi al suo abbraccio. Voltando il visetto corrucciato. Oppure, soprattutto se bimba, può diventare buonissima. “Forse la mamma è andata via perché sono stata cattiva. Ma se sto buonissima forse la mamma torna”. La bambina diventa giudiziosa, “si comporta come una grande”. E se la mamma torna, tra un ciclo di cure e l’altro, la bambina diventa simbolicamente la mamma. Le sue antenne diventano ancora più sottili. Cerca di non disturbare in alcun modo, di essere brava brava, ma spia con spasmodica attenzione ogni segno di malessere. “Mamma perché sei così pallida? Mamma perché sei sempre stanca?”. “Sei triste? Se ti racconto una storia sei meno triste?”. Se la mamma guarisce, la ferita dell’abbandono può essere gradualmente lenita dalla ritrovata presenza. Ma se sono necessari ricoveri ripetuti, come succede se la malattia è aggressiva o recidivante, il dolore resta incistato. La paura di perderla cresce in modo esponenziale. Pervade ogni pensiero, in modo tanto più disturbante quanto più il bambino le è legato. E quanto meno la famiglia (il padre, i nonni) riescono ad essere adeguati sostituti affettivi. “Se vado all’asilo, pensa il bambino, e spesso non lo dice, e poi quando torno la mamma è andata di nuovo via?”. Oppure: “Chissà se la trovo quando torno da scuola”. Il terrore di non trovarla più può allora scatenare ansie tremende, e veri e propri attacchi di panico. La possibilità di perderla per sempre può paralizzare la capacità di apprendere del bambino, divorando la sua serenità.
Che cosa si può fare per ridurre il dolore dell’assenza? Per far sì che la malattia grave della mamma non segni per sempre anche il piccolo? Innanzitutto è essenziale dire al bambino che la mamma è un po’ malata, per esempio che ha male alla pancia, che si deve curare, e che guarirà. Anche un bambino di tre anni può capire questo. Questa sincerità sul problema di fondo dà per lo meno una risposta onesta ai molti dubbi del piccolo, alle sue preoccupazioni, al suo timore di essere lui, o lei, la causa dell’assenza della mamma. Poi è essenziale che il bambino possa contare su un adulto che si prenda cura di lui in modo stabile. Il padre è importante, ma di necessità sta fuori casa molte ore per il lavoro, oltre che per andare a trovare la moglie o la compagna in ospedale. L’ideale è poter contare su una nonna che possa letteralmente trasferirsi a casa loro per tutto il tempo necessario (la casa è una tana protettiva, oggi ancora più di ieri). Così da garantire al bambino una presenza affettuosa e costante, il mantenimento delle piccole e grandi liturgie della colazione, del pranzo, della correzione dei compiti, se va a scuola, dell’addormentamento. Che spesso è un momento di grande ansia per i bambini, soprattutto se la loro angoscia comincia ad attivare incubi notturni sinistri e pesanti. Stare con il bambino nella cameretta, una mezz’ora prima del sonno, per raccontargli una fiaba, fargli una carezza sui capelli, o ascoltare le sue confidenze nella penombra, è essenziale per non farlo sentire solo. Per fargli sentire un conforto dolce che parla al suo cuore, e lo calma.
E’ importante incoraggiare il bambino a disegnare, perché questo gli/le dà modo di esprimere le sue paure, in parte liberandosene, soprattutto se può raccontare ad un adulto sensibile che cosa rappresentano i suoi disegni. Può essere prezioso regalargli un piccolo animale (un gattino, un cagnolino) che diventi il suo compagno di giochi, soprattutto se il bambino è figlio unico. Un animale che sarà il confidente, l’oggetto d’amore “transizionale”, l’antistress e l’antipanico nei momenti di tristezza più segreta. Un animale da coccolare e rispettare in famiglia, e certamente da non abbandonare d’estate. Un secondo abbandono, da parte degli adulti, anche dell’animale preferito può essere devastante per una psiche già ferita. Di certo è essenziale intuire con sensibilità che cosa sta vivendo il bambino. E cercare di essere presenti – il padre, i nonni, una zia – perché ci possa essere ancora una certezza affettiva che gli faccia sentire di essere prezioso per qualcuno. E sono i nonni, con il loro aiuto, a poter minimizzare anche l’impatto che la malattia della donna ha sulla coppia, specie se giovane. Molti studi rivelano che la coppia può attraversare una crisi irreparabile, quando un marito giovane, oltre al lavoro, deve affrontare tutto il carico della famiglia con figli piccoli, mentre la moglie è in ospedale per cure lunghe. E quando lei torna a casa, e magari sta meglio, lui non regge più. E se ne va, o scarica l’aggressività sul bambino. Alcuni restano, e sono mariti e padri stupendi. Ma sono una minoranza.
Ecco perché è essenziale che la famiglia d’origine faccia quadrato, non solo per aiutare la donna malata, ma anche per alleviare il peso di questo dramma sui bambini, anche aiutando il marito nella cura dei piccoli. Possibilità concreta nelle famiglie tradizionali, in cui i figli abitano vicini ai genitori dell’uno o dell’altro, più difficile se si sono spostati per lavoro e vivono lontani. Dietro una mamma malata, c’è una famiglia in grave difficoltà. Non dimentichiamolo. E cerchiamo di essere presenti, con gesti concreti e con il cuore.

Bambini Famiglia e rapporti familiari Rapporto mamma-bambino Tumori e linfomi

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