Il 40 per cento dei giovani intervistati in UK dichiara di «non sentirsi né maschio né femmina», ma di avere un’identità sessuale “fluida”. Il dato è sconcertante e ha notevolissime implicazioni per la società e il futuro dei nostri figli.
Per comprenderne bene la portata è bene rivedere brevemente quali siano i pilastri della nostra identità sessuale, espressione con cui definiamo il senso di appartenenza, più o meno soddisfatto, al genere maschile o femminile. Da millenni, la domanda clou al momento della nascita è una sola: «E’ maschio o femmina?». Il sesso attribuito alla nascita (sesso anagrafico) era una delle poche universali certezze degli esseri umani. Veniva e viene attribuito al neonato in base alle caratteristiche dei genitali esterni, maschili o femminili (sesso anatomico). In condizioni normali, fisiologiche, l’aspetto dei genitali esterni dipende a suo volta dal tipo di cromosomi ricevuti al momento del concepimento e dal quadro ormonale che ne deriva. Nella nostra specie abbiamo una dotazione di 46 cromosomi: 22 coppie di cromosomi sono uguali tra loro; la 23a coppia è quella che determina il sesso. Se l’assetto cromosomico del feto è 44XX nascerà una femmina, se è 44XY, nascerà un maschio (sesso cromosomico). Se per un errore nella maturazione delle cellule riproduttive l’embrione ha 45 cromosomi (44X0) invece di 46, nascerà femmina ma sterile. Il programma di base (di “default”) è dunque femminile: perché da questo modello base maturi una femmina potenzialmente fertile, il 46° cromosoma dovrà essere un X; perché sia un maschietto dovrà essere un Y. Sono infatti le informazioni genetiche contenute nell’Y a far differenziare l’embrione in senso maschile, dal punto di vista sia dei genitali esterni, sia cerebrale.
Fiocco rosa o fiocco azzurro? Dal momento dell’attribuzione del sesso anagrafico e del nome, maschile o femminile, tutte le interazioni con il bambino sono caratterizzate dal suo essere maschio o femmina, ossia dalla sua identità di genere. Dal colore dei completini alla scelta dei giochi, dai comportamenti ammessi o premiati, a quelli rimproverati, dall’identificazione con il genitore dello stesso sesso alla complementazione con quello di sesso opposto, si è avuta nei secoli una fortissima polarizzazione educativa, finalizzata a rinforzare nel bambino e nell’adolescente la “chiarezza” comportamentale di appartenere all’uno o all’altro sesso (identità di ruolo). Le eccezioni venivano punite, anche molto severamente. La terza dimensione dell’identità è definita dalla direzione del desiderio sessuale: eterosessuale, se si tratta di un individuo del sesso opposto; omosessuale se dello stesso sesso (identità di méta sessuale). In passato l’omosessualità è stata negata, stigmatizzata e punita, con alcune eccezioni notevoli nell’antica Grecia e nel mondo latino.
Negli ultimi quattro decenni le società occidentali hanno conosciuto un radicale mutamento della percezione e definizione di identità. L’identità di ruolo è stata la prima a conoscere il vento del cambiamento, con un numero crescente di uomini ad appassionarsi a professioni storicamente “femminili” (la cucina o la cura dei capelli e del corpo, per esempio,) pur mantenendo una identità di genere maschile, e donne a svolgere con competenza ruoli maschili (come l’arruolarsi e fare carriera in corpi militari), pur mantenendo un’identità di genere femminile. Quasi in parallelo, uomini e donne con desiderio omosessuale sono usciti allo scoperto, catalizzando una crescente pressione sociale perché questa direzione del desiderio fosse accettata come naturale, normale e di pari dignità dell’eterosessuale: l’identità di méta è dunque aperta alle due opzioni. Ed ecco il terzo cambiamento, il più sorprendente e dalle implicazioni più inquietanti: anche l’identità di genere, la più solida, diventa “fluida”. Un numero crescente di giovani afferma: «Non mi interessa se sono maschio o femmina, dipende da come mi sento». Questo disancorarsi da una certezza millenaria ha poi due grandi possibilità evolutive: essere percepito come “normale”, senza alcun richiesta di modificare l’aspetto del corpo. O essere problematizzato, fino a diventare un disturbo dell’identità di genere (disforia di genere), che può arrivare a far chiedere alla persona che lo prova il cambiamento fisico di sesso. La fluidità nella percezione dell’identità investe anche la direzione del desiderio, con un’altra affermazione su cui riflettere: «Non mi interessa se è maschio o femmina, mi interessa la persona. Se mi piace, il sesso (che ha) non conta».
Quali sono le rivoluzionarie implicazioni per i nostri giovani, per i figli futuri e la società? Ne parliamo la prossima settimana.
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