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Una parola o una carezza, medicine per gli anziani

31/08/2009

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il reparto di geriatria è tutto occupato, anche d’agosto. In un letto, una vecchina di 93 anni se ne sta rannicchiata, minuta e silenziosa. Ogni tanto guarda la porta, le persone che entrano per salutare le altre malate. Lei resta sola. Incrocio il suo sguardo, sorrido. Lei alza appena la mano, quasi con pudore, per chiamarmi vicino. “Di cosa ha bisogno, signora?”. “De ‘na paroa”. Di una parola.
Una parola affettuosa che dica: “Ci sono, sono qui con te. Esisti ancora per me”. Una parola e una carezza, che facciano compagnia alla mente e al cuore. Che spezzi quel muro di vetro che sembra isolare ogni malato sotto una cappa invisibile e tuttavia impenetrabile, e lo isola in una accorata solitudine senza moti del cuore.
Se non ci sono amici o parenti, siano benedetti quei medici e quelle infermiere che trovano il tempo, l’energia e la generosità per fermarsi a dire al malato una parola gentile, oltre il tempo di visita. O a fare un gesto di conforto, una carezza sulla mano o sul capo, un buffetto affettuoso sulla guancia, un sorriso che cerchi il contatto degli occhi e con gentilezza rassicuri e conforti. Siano benedetti i volontari ospedalieri, che con la loro presenza addolciscono il vuoto gelido d’amore e di attenzioni umane in strutture sempre più tecnologiche e sempre più distratte da quelli che sono i bisogni fondamentali di ogni malato: non sentirsi solo, non sentirsi abbandonato. Sentimenti ancora più intensi e dolorosi quando il malato è grave, quando è bambino o quando è anziano, o quando il dolore è intenso e straziante. Siano benedette quelle persone che, in visita a un proprio malato, sanno accorgersi della solitudine degli altri malati. Perché non passano mai, le ore in ospedale.
Mi ricordo sempre le ore notturne, quando ero di guardia al reparto di oncologia ginecologica, all’Università di Padova. Le ore della sera, quando il reparto tace e la frenesia del giorno si placa, sono preziose. Un giro informale per le stanze, a vedere se tutto va bene, se una malata ha bisogno di qualcosa, se si sente sola, se è preoccupata per sé o i figli a casa, consente di aprirsi a un’altra misura di rapporto umano. La verità della persona, le sue paure, le sue disperazioni, le sue speranze, escono fuori in quei dialoghi notturni e ti fanno capire molto più, di una malattia e dei suoi perché, di molti esami e molti libri. Ti fanno capire come ansia e depressione, le nere ancelle di ogni malattia, specie se grave, possano peggiorare enormemente la percezione del dolore: aumentandola fino a tre volte, se domina l’ansia, e oltre le otto volte, se domina la depressione. Un’amplificazione grave, che non significa che il dolore “è inventato per ragioni psicologiche”. Ma che la percezione del dolore, dimensione squisitamente soggettiva, aumenta quando questi sentimenti negativi consentono a tutti i segnali periferici di dolore di arrivare al cervello. Di converso, un buon tono dell’umore, la distrazione che viene dal sentirsi in compagnia, magari in piacevole conversazione, o anche solo un massaggio affettuoso sulle mani, sui piedi o sulla pancia, possono enormemente attenuare la percezione del dolore, con un meccanismo sia biologico, sia psichico.
Quando siamo malati, ritorniamo un po’ bambini. Perché ci sentiamo improvvisamente dipendenti dalle cure degli altri. Perché ci scopriamo impotenti nel governare il corso degli eventi, condannati a una passività tanto più pesante quanto meno medici e infermieri ci coinvolgono nel progetto di cura e di guarigione. Puri “oggetti-corpo”, come se non avessimo più sentimenti, emozioni, paure, desideri. Si parla tanto di qualità di assistenza, eppure la frattura tra una medicina senz’anima, attenta solo all’oggetto-malato, e una psicologia senza corpo, che non sa cogliere la verità biologica che sottende emozioni e sentimenti, diventa sempre più profonda e pesante nei nostri ospedali, anche quando si definiscono “centri di eccellenza”. Tecnologici, forse sì; umani, raramente. Diventiamo bambini perché il bisogno più forte, quello che avvertiamo in modo più struggente, è quello di attaccamento affettivo, fatto di presenze affettuose, di tenera sollecitudine e di amore. Improvvisamente, le conquiste della vita adulta si appannano. Autostima, autorealizzazione, risultati professionali, carriera e guadagno diventano sempre meno importanti quanto più la malattia è seria. Mentre diventano cruciali i sentimenti e il tentativo di capire se la propria vita ha avuto un senso. Per questo i periodi di malattia sono importanti per rileggere la propria vita, ma anche la qualità delle proprie relazioni. Purtroppo, con qualche eccezione, i nostri ospedali non agevolano questo percorso di “ricomposizione” emotiva e affettiva della propria vita, men che meno negli anziani o nei malati gravi, il cui estraniamento estremo dagli affetti avviene nelle rianimazioni.
Purtroppo anche in corsia le cose non vanno molto meglio. Osservando le persone in visita, si nota sovente come ci sia grande separatezza, come il muro di vetro sia lì, più spesso che mai. Come spesso amici e parenti, in piedi attorno al letto o seduti, parlino tra loro, con il malato lì, silenzioso, quasi una presenza accessoria, senza rivolgergli a volte nemmeno la parola, senza una carezza o un gesto di tenerezza.
Possiamo fare qualche cosa per cambiare questo stato di cose, deleterio e disumano? Sì, cominciando ciascuno dal nostro piccolo mondo. Se un familiare, un amico, è in ospedale, specie se molto malato o anziano, organizziamoci per andarlo a trovare uno o due alla volta. Così avrà più conforto in momenti diversi della giornata (e gli ospedali dovrebbero organizzarsi in parallelo, perché è l’ospedale che dovrebbe essere al servizio del malato e dei suoi bisogni, non viceversa!). Stiamogli vicino, tenendogli/le la mano. Questo contatto affettuoso è un potentissimo ansiolitico: “Ci sono, ti voglio bene. Non sei solo/a”. Ascoltiamo con attenzione e tenerezza: soprattutto le persone anziane hanno bisogno di raccontarsi, di rileggere la propria vita, per (ri)darle un senso vicino alle persone amate, per portarla a quel senso di compimento interiore che consente poi di avvicinarsi senza angoscia all’ultimo giorno. Qualcuno, meno grave, ama sentirsi leggere un racconto, o un articolo di giornale. Anche questo è un modo per dire: “Ci sono, in questo momento mi dedico a te”. Se la persona è troppo stanca per parlare, si può conversare piano, raccontandole eventi luminosi del suo o proprio passato, momenti belli condivisi, o progetti per il futuro. Se in passato ci sono stati screzi o incomprensioni o litigi, un atteggiamento affettuoso fa capire che si può essere generosi, che il perdono c’è già stato, che di fronte a problemi davvero seri, come una malattia grave, le molte sciocchezze su cui spesso si litiga si sciolgono come neve al sole.
Si può essere con naturalezza tanto più gentili e affettuosi, e vicini senza più muri di vetro, quanto più si riesca a mettersi nei panni della persona in quel momento malata: “Se fossi in lei, o lui, che cosa mi farebbe piacere?”. Sarà il cuore a dirci, per affettuosa empatia, come rendere tenera e piena di calore e significato ogni visita.

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