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Un medico e il suo paziente: quando il ricordo vive in un fiore

Un medico e il suo paziente: quando il ricordo vive in un fiore
16/11/2021

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Per gentile concessione di D La Repubblica
Mi aveva consultata tanto tempo fa. Ventinove anni, veniva dal Sud. Una sensibilità straordinaria per la musica: diploma di conservatorio, in organo e pianoforte. Una parallela passione per l’infinitesimamente piccolo. Ricercatore universitario, aveva ottime prospettive di carriera. Alto, asciutto, il volto elegante. Un’educazione rara, nel modo di porsi, di dialogare, di osservare. Di ascoltare. Che problema ha, questa rara creatura? Il giovane uomo è imbarazzato, emozionato, l’adrenalina alle stelle. La fragilità emozionale emerge prepotente.
«Perché ha scelto di venire da me?», chiedo diretta.
«Ho un problema enorme: non ho mai avuto una ragazza. Le donne mi piacciono, ma ho una timidezza sentimentale tremenda, solo con loro. Tutti gli altri rapporti, di amicizia, di scuola e di lavoro, vanno bene. Su quel fronte, sono un disastro. I miei genitori sono molto preoccupati. E’ mio padre, professore universitario, che mi ha fatto il suo nome, dopo aver valutato il suo curriculum e dopo lunghe conversazioni con mamma. “E’ un medico preparato. Ha una formazione in psicoterapia. Ha uno sguardo positivo verso la vita e le persone. Da come parla, si sente che sa apprezzare il meglio del femminile e del maschile. Pensiamo ti possa aiutare”. Questa è stata l’ouverture».
«Quando lei si immagina con una ragazza che le piace, come si sente?».
«Come un analfabeta, che non sa neanche l’abc dell’amore. Un dodicenne ne sa di sicuro più di me. Parte l’adrenalina, ed è panico puro. Comincio a sudare e non connetto più. Ho finito per evitare ogni incontro. Anche se alle ragazze mi accorgo di piacere…».
«Ansia anticipatoria, si chiama. Quando il solo pensiero di un incontro attiva tutta la cascata biochimica della paura e della fuga».
«Esatto, ecco. L’unico desiderio è la fuga».
«Rivivendo l’emozione della paura, nel cervello e nel corpo si creano delle vere autostrade, anzi dei binari precisi, fatti di connessioni nervose a bassa resistenza, dove il comportamento dell’evitamento e della fuga viaggia in modo veloce e obbligato, come un rapido sulle rotaie. Nuove risposte sono la via per uscire dai circuiti obbligati».
«Sì, è così che mi sento: un automa in preda all’ansia e alla paura».
«Sa che l’attività fisica aiuta a scaricare molto bene le emozioni negative?».
«Non faccio sport. Solo suono».
«Allora cominci dal camminare al mattino presto, o nuotare, per abbassare l’adrenalina e cambiare gli schemi».
«Ci provo: l’idea di cambiare gli schemi mi persuade. Sento che è buona per me»
«In parallelo, le suggerisco un collega psichiatra molto competente, che lavora bene con farmaci a basse dosi. Se riduciamo il terremoto di adrenalina, il lavoro psicoterapeutico procederà molto meglio…».
«Va bene, mi fido!».
Vedere un paziente cambiare e crescere è un processo misterioso. A volte il lavoro è squisitamente maieutico: far emergere talenti e capacità ancora intrappolati nei sotterranei dell’anima. A volte è più terapeutico il rapporto di fiducia profonda, che non quello che si prescrive. A volte una metafora persuasiva dà il giro di boa del cambiamento, rivoluzionario e potente. Dopo due anni di lavoro, che è stato soprattutto un incontro di anime, di mondi e di codici, maschili e femminili, rinfrancato e sicuro di sé, il ragazzo si innamora, ricambiato. Si fidanza felice. Ogni Natale arrivavano i suoi fiori, con gli auguri affettuosi.
Tre anni dopo il nostro ultimo incontro, la settimana prima di Natale, la segretaria annuncia una signora per un saluto.
«Ha un gran mazzo di fiori», mi dice sorridendo.
«Sono la mamma di Adriano. Mio figlio le manda questi fiori, con i suoi auguri».
«Ah, che belli, grazie mille! E Adriano come sta?».
«E’ morto in un incidente, mentre andava al lavoro in moto. E’ stato investito».
«Come, morto?! Ma quando è successo? Non sapevo niente!».
«A giugno, sei mesi fa».
Ci abbracciamo fra le lacrime: «Mio figlio non avrebbe mai sopportato l’idea che, non ricevendo più i suoi auguri, lei potesse pensare che l’aveva dimenticata».

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