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Terapia: gli ingredienti essenziali della cura

Terapia: gli ingredienti essenziali della cura
30/09/2019

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

«Per darti una buona terapia, un medico deve avere sempre due solide gambe: la prima è la competenza. Se non ce l’ha, è meglio parlare col parrucchiere, che t’ascolta dieci volte di più. La seconda è l’umanità: se non ce l’ha, anche la sua competenza serve poco, in medicina ancor meno che in chirurgia. E comunque, quando è scarso in una delle due, un medico è sempre zoppo. Nella mia vita ho cercato medici che avessero competenza e umanità insieme: solo così sono davvero compagni di viaggio, quando la mèta è ritrovare la salute. Solo così ti danno quella fiducia che ti fa lottare cento volte meglio anche con malattie tremende. Ma che fatica trovarli…».
La signora che mi parla così ha una storia medica seria sul fronte oncologico. E’ una guerriera di natura. E’ viva contro ogni prognosi, ancora più innamorata della vita. Colta e intelligente, mi ha fatto tornare il gusto di approfondire le radici di “terapia”, parola che tutti incontriamo nella vita e che viene da lontano. Ben venticinque secoli fa, il primo a usarla pare sia stato Platone che, nel Gorgia, parla di terapia come “therapeía theôn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei e del divino. Successivamente, nell’Ippocrate, Platone ritorna sull’argomento e parla della “therapeía toû sómatos, tês psychés”, “terapia del corpo e dell’anima”.
In ogni opera platonica, la terapia si arricchisce dunque di significati pregnanti. Nel Gorgia la prima attenzione è sull’atteggiamento del medico verso il malato: la sollecitudine e l’attenzione dovrebbero nascere dalla motivazione per cui si fa il medico. Una missione, si diceva una volta, che affonda le sue radici in una dimensione in cui il sollievo dal dolore si avvicinava al sacro: «Divinum est sedare dolorem». In cui la soddisfazione di lenire il dolore, di curare in senso concreto e profondo insieme, nasce dal bisogno e dal desiderio di dare un senso alto alla propria vita. Nell’Ippocrate guarda invece al malato come corpo e anima, corpo e psiche, e all’importanza di dialogare con entrambi e curare entrambi, perché l’uno può far ammalare l’altra, e viceversa. Oggi purtroppo la medicina è una professione sempre più finalizzata a ottenere altre gratificazioni – potere, status, denaro, successo – prioritarie rispetto al gusto di aiutare e curare.
La progressiva tecnologizzazione e la burocratizzazione pongono ulteriori barriere fra medico e paziente. Il corpo è diventato un oggetto a pezzetti, reificato e parcellizzato, diviso in tante competenze specialistiche che nemmeno si parlano più. Quasi un insieme casuale di organi, invece che un insieme intelligentemente strutturato e sempre interconnesso, in cui ogni organo dialoga con il tutto. La burocrazia sanitaria fa il resto: anche i medici più appassionati e motivati sono in seria difficoltà. Più della metà del tempo di visita è dedicato ad aspetti burocratico-cartacei, a scapito del dialogo clinico e del tempo necessario per un ascolto reciproco che porti a una solida alleanza terapeutica. Prerequisito questo perché il paziente sia soddisfatto e motivato nel progetto terapeutico, e il medico soddisfatto del proprio agire nel sentirsi utile a risolvere o comunque rendere affrontabili problemi di salute anche molto gravi.
Una difficoltà ulteriore nasce dalle nomine “politiche” alle direzioni amministrative e sanitarie degli ospedali: l’equazione “tempo uguale denaro” sembra l’unica rilevante, a scapito della competenza e dell’umanità delle cure. E’ già tanto se in ospedale si tolgono i sintomi. Platone avevo visto lontano: nelle Leggi, parla di due tipi di medicina. La prima, praticata da medici schiavi, è riservata agli schiavi, ai quali si cerca di togliere rapidamente i sintomi perché riprendano subito il lavoro; la seconda, praticata da medici liberi, è la medicina per gli uomini liberi: attenta al corpo, all’anima e ai rapporti familiari.
La medicina contemporanea, così concentrata a eliminare i sintomi, senza attenzione per la complessità del corpo, per la psiche e per i rapporti familiari, è una medicina da schiavi, per corpi reificati, fatta da medici schiavi di strutture (facoltà di medicina e ospedali) che hanno perso di vista, da tempo, il malato, che dovrebbe stare al cuore e al centro di ogni progetto formativo e sanitario. Riusciremo a far rivivere la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini e le donne liberi? O soccomberemo al Moloch di una visione aziendale, politicizzata in basso, che tutto divora?

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