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Storie antiche d'amore e morte

24/11/2008

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

La scena era atroce. Il villaggio bruciato, nessun superstite. Otto bambini massacrati, tre donne, due uomini adulti. L’uomo, o gli uomini, tornati alle loro case, trovano solo morte e desolazione. 4800 anni fa, in Europa ieri come in Africa oggi, guerre fratricide lasciano sul terreno non solo uomini in assetto di guerra, ma donne e bambini. Genocidi in grande o piccola scala, con quell’unico obiettivo, così tipico della nostra mortifera specie, di non lasciare vivo nessuno tra i nemici, nemmeno i loro bambini più piccoli. Cancellazione totale. Succede tuttavia che quegli uomini antichi, tornati a casa, non brucino i corpi rimasti. E nemmeno li seppelliscano in una fossa comune. No. Ricompongono i corpi, ciascuno con i suoi bambini, come hanno dimostrato analisi sofisticate del DNA, l’analisi al radiocarbonio e l’analisi delle ossa e dei denti, i cui risultati sono stati appena pubblicati sul prestigioso “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Per la prima volta, a Eulau, in Sassonia, gli archeologi hanno documentato l’inumazione di un’intera famiglia, una coppia con i due piccoli, di quattro e otto anni, e, separatamente, di una donna con i suoi tre piccoli, un’altra con il suo, e infine un uomo con altri due bimbi di 4 e 5 anni. Forse gli uomini tornati a casa erano loro familiari. Fratelli o amici degli uccisi. Oppure erano i due compagni (a quel tempo non è documentata in Europa l’esistenza di un’istituzione simile al matrimonio) delle donne massacrate. Forse c’era una donna con loro, tornata a piangere i morti e a dar loro adeguata sepoltura.
Per la prima volta in Europa, questi uomini compiono un gesto speciale, di attenzione, di affetto e di pietà. Ricompongono i corpi massacrati, ogni famiglia in una tomba separata dalle altre, ciascuno vicino ai suoi. Quando seppelliscono la coppia uccisa, questi uomini hanno pensato che forse anche nel mondo cupo dopo la morte ci siano insidie e pericoli. E per questo hanno composto i corpi del padre e della madre “vis-à-vis”, raccolti, con i due bambini in mezzo, il più piccolo con il cranio sfondato, l’altro con fratture multiple, come in un ultimo abbraccio. Acquietati finalmente, vicini per sempre. E mettono gli altri bimbi ciascuno vicino al corpo del suo genitore.
4800 anni fa, l’Europa era abitata da tribù bellicose, soprattutto nell’area germanica. La promiscuità era elevata, e la mortalità altissima, sia infantile, sia adulta. L’età media non arrivava a trent’anni. Le donne erano spesso rapite alle tribù vinte: quelle trovate a Eulau, per esempio, avevano avuto un’alimentazione completamente diversa. Erano quindi cresciute altrove, come dimostra la struttura dei loro denti. Eppure, in quel mondo ancora così primitivo, si erano già strutturati legami profondi, riconosciuti all’interno della tribù. La sepoltura non era più solo un tributo verso il capo o i più abbienti, ma un gesto di pietà, dovuto a tutti i membri della comunità, che mostra già un pensiero primitivo verso qualcosa oltre la morte. La postura dei corpi, quell’ultimo abbraccio, fa intuire intensità di affetti, tenerezza, sgomento di fronte alla morte violenta, per quanto allora fosse esperienza quasi quotidiana.
Certo, in altre parti del globo le società erano anche più avanzate. Nell’antico Egitto era già al potere la prima dinastia, iniziata nel 3150 a.C., oltre 5000 anni fa quindi. Tuttavia, il ritrovamento di Eulau ci fa riflettere su quanto il legame di sangue si fosse già strutturato nella percezione collettiva. Di quanto il pensiero magico primitivo avesse elaborato un’intuizione del dopo-morte come possibilità, forse, di ritrovarsi ancora insieme. E, in questa prospettiva, di quanto la cura dei morti e la ricomposizione delle famiglie, anche dopo la morte, potesse da un lato consolare i vivi, e, dall’altro, pacificare gli uccisi. Non a caso, sul dramma dei corpi insepolti, e l’infelicità delle loro anime, culture diverse hanno scritto pagine d’arte meravigliose. Basti fermare lo sguardo e il cuore su un piccolo bronzo struggente, al museo archeologico di Cagliari: “La madre dell’ucciso”, che mi colpì tanti anni fa. Emozioni e dolore universale, che riaffiorano in media più moderni, come il cinema. Come nello straordinario “L’arpa birmana”, di Kon Ichikawa (1956), un film in cui un soldato giapponese sopravvissuto si fa monaco e dedica la sua vita a seppellire i corpi dei commilitoni caduti in guerra e rimasti insepolti in Birmania. Con gesti di pietà antica: sullo sfondo, la struggente musica della Passione secondo Giovanni di Bach, colonna sonora della memoria, del dolore, del rimpianto, ma anche della speranza di una morte finalmente acquietata. Un film, visto quand’ero al liceo, che ha inciso una traccia forte nel mio cuore.
Noi moderni, angosciati dalla morte, che esorcizziamo con un vitalismo esasperato, affamati di passioni forti, avvelenati da passioni tristi, dovremmo fermarci silenziosi di fronte all’enigma che ci turba. Di fronte alla morte che ci sfiora o ci azzanna, dovremmo recuperare un senso antico della fugacità e impredicibilità della vita, senza negarla, senza cacciarla nell’ombra inquieta della nostra anima. Imparando invece ad amarla, questa presenza silenziosa che tutto ritara. Con coraggio e una grande certezza: non siamo soli, nemmeno di fronte alla morte, se i nostri affetti, i nostri amori, i nostri cari sono capaci di accompagnarci fino all’ultimo, vicini, salutandoci acquietati.

Amore e relazioni affettive Morte e mortalità Storia

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