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Non morire in modo stupido

06/06/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Varsavia. «Era l’alba del 1° agosto del ’44. Avevo fatto la scuola sotterranea e l’addestramento segreto per l’insurrezione contro i nazisti. I sovietici stavano arrivando. Avevo 15 anni. Mia madre era terrorizzata per la paura che fossi ucciso, non voleva assolutamente lasciarmi andare. Mio padre puntò i piedi: “Lascialo andare, è il suo momento”». L’uomo che racconta ha il volto segnato dalla fatica di vivere. Le rughe sono rigide, dure, nette. Eppure un fremito di commozione lo insegue nel profondo, quando ricorda: «Mio padre mi guardò e mi disse la frase che più mi ha colpito nella vita: “Figlio vai. Non nasconderti. Combatti. Può succedere di morire. Ma non morire in modo stupido”». L’insurrezione finì in massacro: la città capitola il 2 ottobre, con Varsavia distrutta per l’84%, e i russi fermi sull’altra sponda della Vistola a osservare lo sterminio. Pochi i sopravvissuti, intervistati dopo l’indipendenza dalla Russia, nel 1991, quando il sogno dei polacchi di tornare nazione libera divenne realtà. Al Museo dell’Insurrezione foto e filmati danno il senso del disastro, ma anche dell’impegno individuale di decine di giovani polacchi, del senso urgente di vita, della voglia pervadente di impegnarsi, anche di morire, per liberare la città e il proprio destino. E resta formidabile l’impatto del ricordo sui volti dei pochi sopravvissuti, decenni dopo: uomini e donne il cui volto si accende ancora ripensando all’entusiasmo, all’euforia di quei giorni in cui sembrava di potersi liberare rapidamente dell’invasore. Racconta una donna: «Quella mattina anch’io ero pronta, al segnale convenuto. Salutai mio padre e mia madre, pronta ad unirmi alle forze di liberazione. Mio padre mi guardò, in silenzio. Si inchinò: per la prima volta nella mia vita mi prese la mano. La baciò, senza più parole... Fu il suo addio. Non li ritrovai più».
Un addio dove il padre si inchina al coraggio della figlia. E baciandole la mano, con commozione onora e benedice la sua scelta e il suo destino. Emoziona, entrare nei musei di guerra. Perché parlano di vita struggente e di morte, di speranze ardenti e di follie omicide. Ascoltando uomini e donne sopravvissuti alla distruzione della città si capisce perché la ricostruzione di Varsavia “com’era prima della guerra, con le sue case e i suoi monumenti uguali a prima” sia stata fatta tutta con denaro privato, di vecchi, di emigrati, di bambini, dei benestanti come dei poveri. Ognuno ha dato, pur con l’economia in ginocchio, e un’emigrazione spaventosa. Potenza dei simboli e della nostalgia, potenza del valore di un’identità nazionale forte, nonostante invasioni e distruzioni. Il museo è gremito di famiglie e di giovani polacchi. Pochissimi gli stranieri. Anche questo rivela un’anima, in questo luminoso e quieto sabato mattina di giugno. Fa pensare. Varsavia ricostruita non incanta con le atmosfere rarefatte e decadenti, distillate dal tempo e dalla storia, che hanno la magica Praga o l’incantevole Cracovia. E’ una città martire, più volte distrutta e risorta, testimone e vittima del lato oscuro dell’Europa moderna e dei suoi abissi, brulicanti di fantasmi e di mostri. Eppure, dopo aver visto quei filmati, ascoltato quelle testimonianze, quel dolore da distruzione e quella voglia di libertà e di vita, lo sguardo che si posa sui monumenti ricostruiti con cura e con amore coglie un’altra bellezza, un’altra fascinazione. L’orgoglio di un’identità nazionale che esiste prima e oltre la distruzione della case e dei palazzi. Un’identità profonda, fatta di fede e dignità, che rivuole i propri simboli, i profili amati della città, i colori, il profumo dei tigli, gli stemmi e le storie. Che vuole conoscere e capire, e rispetta la città nuova, ricostruita, con una pulizia e un senso dell’ordine (nonostante i mille cantieri) che mi fanno sentire imbarazzata ripensando alla sporcizia indifferente di tante città d’Italia. Sono le atmosfere, allora, a sedurre, è la nostalgia, ma è anche il coraggio, l’orgoglio di essere sopravvissuti tramandando ai figli e ai nipoti una testimonianza piena di voglia di fare ciascuno in prima persona.
Torna alla mente la frase di quel padre, e dispiega la sua potenza di verità umana universale. Disse in realtà quel padre, e dovrebbero dirlo tutti i padri (e le madri) del mondo: «Non vivere in modo stupido». Per dirlo oggi, non c’è bisogno di un’altra guerra, ma di ideali grandi, e di un senso alto della vita. Sapremo ritrovarli? Sapremo trasmetterli?

Adolescenti e giovani Guerra Morte e mortalità Riflessioni di vita Storia

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