In quest’estate di sangue che sporca, tradisce e devasta l’essenza di quel “ti voglio bene”, che vuol dire “voglio il tuo bene”, detto fino al giorno prima, è possibile riconoscere due tipologie: da un lato l’omicidio-suicidio, come in questo caso, in cui l’idea di perdere la donna amata è percepita come una morte, come una perdita secca della vita, come un annichilirsi del proprio futuro. E allora, in un abisso di distruttività ossessiva e impulsiva: «Se io non vivo più, non vivrai più nemmeno tu. Nessuno ti avrà più». Il pensiero omicida diventa rapidamente pervadente, paralizza il giudizio, anche di autoconservazione, e porta in poche ore alla tragedia. Una tragedia forse non prevedibile dal punto di vista affettivo, almeno sembra. Ma prevenibile, se il porto d’armi fosse concesso con minore facilità. In altri casi recenti, l’assassino con chiara premeditazione uccide e cerca di sparire. Mostrando non impulsività, ma spietatezza, calcolo, brutalità incurante del diritto di vivere, fino a pregustare l’assassinio. Che può essere rapido e senza appello, come negli assassini di questi ultime settimane, o graduale. Perché si può uccidere anche gradualmente, con violenze e abusi quotidiani.
Un mondo sommerso di angherie e devastazioni, di cui quella che vediamo è solo la punta più vistosa e inquietante. Che cosa può esporre una donna a gesti così brutali? L’essersi fidata, l’essersi innamorata di uomini distruttivi. A volte dalle caratteristiche chiare: perché maneschi, aggressivi, violenti fin dall’inizio della storia. E allora, si dice, attenzione, ragazze e signore: fuggite al primo gesto sopra le righe. Purtroppo, per la maggioranza delle donne l’amore – o l’illusione d’amore – viene prima di tutto. E se amano, sopportano qualsiasi cosa. Sperando che l’altro cambi, secondo l’insidiosissimo copione: “Io ti salverò”. Il punto, tuttavia, non è “dove ha sbagliato lei”: se a fidarsi di un uomo a rischio, o comunque di un uomo geloso e possessivo in modo patologico. Il punto è che la vita è sacra, e nessuno può arrogarsi il diritto di uccidere, men che meno per ragioni affettive. Tanto più che, in casi come questo, lui è il classico bravo ragazzo, ineccepibile, che tuttavia, nel momento dell’abbandono, esplode in una rabbia incontrollata. Nulla poteva far supporre, nemmeno ai familiari e agli amici di lei, che dentro quel ragazzo, dentro quell’uomo, ci fosse un assassino potenziale.
Nei casi di omicidio-suicidio, alla base del gesto estremo stanno più fattori che confluiscono nell’incapacità di controllare l’impulso omicida. A (quasi) tutti capita di pensare nella vita, per le più varie ragioni: “Lo/la ammazzerei”. E tuttavia, il codice sociale che tutela la sacralità della vita, il comandamento “non uccidere”, l’educazione al controllo degli impulsi, la paura delle conseguenze, porta la maggioranza delle persone a non tradurre il pensiero in azione. L’“acting–out”, il passaggio dirompente da emozione ad azione mortifera, può esplodere nel panico dell’abbandono, se gli argini costruiti dall’educazione non sono abbastanza forti e solidi. Se l’effetto suggestione/imitazione rompe le barriere del giudizio critico, che bloccherebbe altrimenti il pensiero dentro la mente. Ma quando succede in uomini fino a quel momento tranquilli, appare poco prevenibile (porto d’armi a parte).
Diverso è il caso di omicidio con premeditazione (e senza suicidio) in cui la responsabilità sociale è più netta. Perché questa società, con la drammatica deriva delle norme che la caratterizza, l’esplosione di violenza e la sistematica protezione che garantisce ai delinquenti, con una giustizia tanto garantista quanto inefficiente, dà due messaggi pericolosi. Il primo: «Qualsiasi cosa tu faccia, resterai di fatto impunito». Tra lungaggini burocratiche, eccezioni formali, decadenza dei termini e indulti – ricorderanno i lettori che nell’ultimo sono stati inclusi i reati a sfondo passionale (!) –, solo una minima parte dei delitti viene punita e comunque in modo infinitesimo rispetto alla colpa. Il secondo, in logica conseguenza del primo: «Sfogati, colpisci, vendicati, fai quel che ti pare, tanto hai buone probabilità di farla franca». Su questo, dovremmo fare molto di più. Ma con questa classe politica che, a destra come a sinistra, usa il potere come strumento di protervia personale; con una giustizia infettata di personalismi, e interessata a tutto fuorché ad una Giustizia rapida; con un’etica collettiva che ha smarrito i fondamentali, e che legittima ciascuno a perseguire solo il suo “particulare”, resta poco spazio per la speranza.
Nel primo caso, di omicidio-suicidio, resta un annichilito silenzio. Ma nel secondo, che giustizia sia, rapida, senza attenuanti, con un ergastolo in isolamento per sempre, senza indulti né condoni.
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