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Malattie inventate... o negate?

28/08/2006

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Malattie inventate... o negate? Riesplode sui media la polemica sull’industria farmaceutica, rea di “inventare” le malattie “per fare soldi”. In inglese questo delitto contemporaneo di chiama ”diseases mongering”, o mercantilizzazione delle malattie: il frutto avvelenato delle conquiste della medicina occidentale. L’ultimo “j’accuse” accende il libro “Gli inventori delle malattie” (edizioni Lindau), appena pubblicato da un giornalista tedesco, Jorg Blech, la cui tesi è stata subito acriticamente ripresa come verità di fede da molti quotidiani, anche italiani. Tra le malattie “inventate”, la sindrome del colon irritabile, le disfunzioni sessuali femminili, l’invecchiamento, la gravidanza e il parto... La generalizzazione secondo cui l’industria farmaceutica sarebbe l’unica responsabile dei mali della medicina moderna soffre in realtà di due gravi vizi concettuali: uno di forma, l’altro di merito.
Dal punto di vista formale, la generalizzazione, come tutti i “pre-giudizi”, i giudizi a priori, soffre del peggior limite del pensiero: l’incapacità, o la non disponibilità, strumentale o meno, a  sostenere le affermazioni con un’analisi accurata e specifica dei singoli casi in esame, come il filosofo Bacone ben insegnava. Il giudizio di fondo “Tutta l’industria farmaceutica è corrotta”, per il solo fatto che si tratti di imprese commerciali, soffre di un pregiudizio storico, secondo il quale chi, individuo o ente, si arricchisca mediante un’attività commerciale è per definizione in malafede, se non un ladro “ex se”. Come se fossero principi incompatibili essere un’industria in attivo ed essere etici. Come tutte le generalizzazioni (“tutti i bianchi o i neri sono cattivi”) questo pre-giudizio è più vicino al pensiero ideologicamente distorto a priori, se non francamente paranoico, che non ad un corretto argomentare. Certo, ci sono nell’industria, anche farmaceutica, casi di corruzione, di amplificazione del mercato, di pubblicità capziosa, che vanno riconosciuti e denunciati. Ci sono medici collusivi con la forzatura del mercato in una direzione, che vanno puniti. Ed è vero che, per taluni parametri biochimici, come il livello di colesterolo, l’abbassamento dei limiti di normalità può risultare strumentale. Tuttavia, va ricordato a questi salvatori dell’umanità vestiti da novelli Robespierre con la penna ardente e sterminatrice che la maggior parte dei farmaci che oggi hanno indiscutibilmente allungato la vita umana, migliorandone la qualità, sono stati scoperti grazie alla ricerca indipendente gestita dall’industria. Chiedete a un’impresa quanti anni di lavoro, quanti ricercatori, quanto denaro comporti scoprire e sviluppare un farmaco, testarlo, superare i giustamente severi controlli, fino all’approvazione. Dovessimo limitarci alle scoperte farmacologiche effettuate grazie ai finanziamenti pubblici, saremmo a un livello anteriore alla seconda guerra mondiale. Non solo: lo sviluppo di un farmaco nuovo comporta un’enorme ricerca scientifica, di base e clinica, per comprendere quali siano i processi alterati del quadro fisiologico che portano alla disfunzione e alla malattia. Molti dei progressi della medicina sono stati promossi proprio da questa ricerca, cha ha portato non solo farmaci sul mercato, ma misure preventive e riabilitative anche non farmacologiche.
Dall’insulina agli ormoni tiroidei, dai farmaci ipotensivi ai chemioterapici, dagli antinfiammatori agli antidolorifici, dagli antidepressivi agli antibiotici, non c’è dubbio che centinaia di milioni di uomini e donne abbiano potuto godere di decenni di vita in più, e di qualità di vita, altrimenti impensabili e impossibili. Chiediamo a uomini e donne come sarebbe la loro vita senza questi farmaci... I greci, che sapevano pensare, usavano sempre la parola “farmaco”, o lo specifico  principio terapeutico, insieme con l’aggettivo “buono” o “cattivo”: per sottolineare come sia l’uso che se ne fa, e non il farmaco in sé, a essere positivo  o negativo. E’ la correttezza della diagnosi a qualificare l’indicazione  a usare o meno un farmaco, e quindi l’eticità ultima del suo uso.
Nel merito, la questione diventa ancora più spinosa, e argomentativamente scorretta. Perché confonde tre grandi categorie mediche: le condizioni nelle quali l’ignoranza fisiopatologica porta a negare la base biologica, relegando i sintomi nell’area dei problemi “psicogeni” o “da stress”; le condizioni nelle quali un sistematico pregiudizio perpetua una grave omissione diagnostica; e le condizioni predisponenti alle malattie, quali per esempio l’invecchiamento o la gravidanza.
Per brevità, un esempio per categoria: oggi sappiamo che molti casi di “colon irritabile” sono dovuti in realtà alla presenza della celiachia, una malattia geneticamente determinata in cui l’intolleranza al glutine espone il colon a una disfunzione cronica. Eliminato il glutine dalla dieta, la persona letteralmente rivive: altro che malattia inventata. Ma il colon è anche ricco di serotonina: la sua funzione si altera in caso di depressione, o di sindrome premestruale, perché questo neurotrasmettitore agisce non solo sul cervello ma anche  sull’intestino. Una corretta diagnosi sui sintomi somatici, fisici, della depressione può aiutare a stare meglio mentalmente e fisicamente, con gli opportuni stili di vita e i giusti farmaci, alle dosi appropriate. La depressione non è una nuvola nera sopra la testa: ma abita tutto il corpo. Verità compresa solo quando si sono scoperti i recettori per la serotonina nella parete del colon, oltre che di altri organi periferici, e i farmaci per modularli.
Del secondo gruppo fanno parte le disfunzioni sessuali femminili: e su questo tema la distorsione di giudizio scientifico è grave. Innanzitutto, se la funzione sessuale ha – indiscutibilmente – una solida base biologica, nelle donne come negli uomini, perché solo nelle donne la controparte patologica dovrebbe essere un’invenzione? Sarebbe l’unico caso in medicina in cui una funzione non può (per definizione o per pregiudizio?) andare incontro a patologie... Purtroppo, proprio il pregiudizio che nelle donne i disturbi sessuali abbiano solo cause psicologiche, o legate alla coppia, ha portato alla sistematica negazione, e quindi al non studio, delle loro cause biologiche, fino a pochi anni fa. Con il risultato, evidente a tutti, che mentre per gli uomini abbiamo farmaci efficaci per curare le loro disfunzioni, per esempio di erezione, per le donne finora non è stato ancora approvato al mondo nessun farmaco utile per le loro disfunzioni sessuali. Chiedete alle donne che hanno dolore ai rapporti che cosa significhi sentirsi dire per anni che il dolore “se lo inventano” o che “l’hanno in testa”. Chiedete a una donna con dolori mestruali invalidanti che cosa significhi soffrire ogni mese, per 9 anni e tre mesi, in media (!), prima di avere una diagnosi corretta di endometriosi e intanto avere la vita personale e sessuale devastata. Chiedete che cosa significhi, dopo la menopausa, avere secchezza e dolore e cistiti, per anni. E poi scoprire che sarebbe bastata una minima dose di estrogeni in vagina per stare bene, cambiando la vita personale e di coppia.
Negare la possibile base biologica di un problema sessuale significa negarne di fatto la possibilità di cura: se uno ha mal di denti, va dal dentista o dallo psicologo? Perché, se una donna ha dolori “lì”, “se li inventa” e viene spedita a fare anni di psicoterapia? Quanta solitudine, quanto negletto diagnostico c’è in questo dolore? Il vero abuso sta in questa negazione della verità biologica del dolore, che alimenta tante disfunzioni sessuali femminili.
Infine, nel terzo gruppo, innanzitutto l’invecchiamento. Certo, non è una malattia in sé, ma predispone a molteplici malattie: e la mappa, anche anamnestica, ossia attraverso la storia familiare e personale, della nostra vulnerabilità genetica all’invecchiamento patologico può consentire interventi mirati a mantenere una maggiore e più lunga salute, anche attraverso l’utilizzo clinicamente intelligente di un farmaco. Con l’obiettivo di allungare l’“aspettativa di salute”, l’unica che conti, ben più dell’aspettativa di vita in sé. Quanto alla gravidanza, certo, non è una malattia: ma resta la prima causa di morte nelle donne in età fertile nei Paesi sottosviluppati.  Non solo per i rischi legati alle patologie della gravidanza e del parto, ma anche, e soprattutto, per la possibilità o meno di scegliere “quando” avere una gravidanza. Agli smemorati giovi ricordare che quando Gregory Pinkus, negli anni Cinquanta, iniziò le sue sperimentazioni sulla pillola contraccettiva fu finanziato non dall’industria farmaceutica, ma dalle femministe americane. Che, giustamente, avevano visto in questa possibilità di autodeterminazione della donna la chiave dell’emancipazione dal destino biologico e, in sostanza, la vera rivoluzione sociale del Novecento.
E allora? Deve restare alta l’attenzione critica al corretto uso dei farmaci, o alla scoperta di nuove sindromi, per mantenere la giusta allerta nei confronti delle distorsioni, per riconoscere e denunciare gli abusi, per perseguire una farmacologia e una medicina di qualità al servizio di uomini e animali. Senza negare, tuttavia, con generalizzazioni strumentali, i molti benefici che la ricerca finanziata dall’industria farmaceutica ha portato alla medicina e alla qualità della vita di uomini e donne, benefici di cui tutti godiamo. Non ultimo, questo modo di ragionare per bianchi e neri, per pregiudizi e distorsioni ideologiche, contribuisce ad alimentare quella tendenza paranoica, per contrapposizioni rigide e aprioristiche, che è l’insidioso veleno del pensiero contemporaneo.

Dolore ai rapporti / Dispareunia Invecchiamento e longevità Sindrome dell'intestino irritabile

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