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La parola smarrita da ritrovare

La parola smarrita da ritrovare
30/12/2024

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Ultimi giorni di Avvento, prima di un Natale di decenni fa, nella grande casa dei nonni, dove sono stata molto felice. I decori natalizi erano già lì luccicanti, con le lucine piccole e scintillanti che erano la mia passione. Avevo aiutato a preparare i piccoli mazzi con rametti di pungitopo con le loro bacche rosse e le foglie verdi che la zia Anna aveva dipinto d’oro e d’argento, aggiungendo un bel fiocco rosso, per accompagnare i regali. Il profumo di casa era avvolgente: la nonna materna cucinava in modo divino. In quel profumo, c’era un mondo perduto. C’erano cura dei dettagli, una sapienza antica, l’immancabile Artusi che la nonna consultava come fosse la Bibbia, amore per la famiglia e una speciale simpatia per questa nipotina primogenita, per cui non mancava mai, in tavola, uno dei miei piatti preferiti.
Era ormai l’imbrunire ed era ancora più dolce starsene lì, coccolata, circondata di affetto e di colori festosi, per partecipare a quel gioco misterioso che era la preparazione del Natale «perché tutti fossero felici». La zia Anna scriveva i biglietti di auguri ad amici e parenti. E io, che avrò avuto sette anni, partecipavo contenta a quella preparazione colorata, mettendo tutta attenta i francobolli sulle buste, in un’atmosfera ridente, tenera e affettuosa.
Nel grande salone c’era anche la prozia, la mitica zia Nené, sorella del nonno, che veniva a trovarci per le festività. Classe 1900, alta, elegante, sportiva, coltissima e poliglotta, viaggiatrice appassionata in tempi in cui viaggiavano in pochi, era il mio modello. Mi raccontava sempre dei suoi viaggi, frequenti in Europa, ma anche dei più interessanti in India, in Cina, in Tailandia. Bionda, occhi blu intensi, le mani bellissime, mi incantava con la sua voce.
Ero talmente concentrata a mettere i francobolli che non m’ero accorta fosse arrivata alle mie spalle. Quel «Tesoro, ti prego!» mi fece alzare di scatto. La voce era musicale, come sempre – me la ricordo come stesse parlando ora – ma l’autorevolezza del tono richiedeva con garbo attenzione immediata. «I francobolli non si mettono a caso, un po’ storti, di qui o di là. Bisogna metterli con cura, con i lati paralleli esattamente ai lati della busta. Vedi? Si fa così, disse prendendo una busta e mettendo il francobollo in perfetta simmetria. E sai perché, tesoro?». Accennai di no, col capo. «Chi riceve la lettera, o il biglietto, potrebbe percepire in quel francobollo messo a caso una mancanza di rispetto e di attenzione».
Ero arrossita. La zia e la nonna mute. Si chinò a farmi una carezza. La voce era cambiata, forse si era accorta del terremoto di emozioni che mi agitava. «Ho visto che ti stavi impegnando molto per aiutare la zia Anna, e questo è molto bello, brava!». Lo sguardo si era molto intenerito. «Siccome però sei piccolina, noi grandi, che a volte siamo un po’ noiosi, e io di più – e mi sorrise – ti dobbiamo insegnare a fare le cose sempre meglio. Perché è come si fanno le cose, tesoro, che fa la differenza. In tutti gli aspetti della vita».
«Va bene, zia. Adesso li metto tutti dritti giusti». Avevo ritrovato la voce. Il suo sguardo di approvazione mi sciolse la paura di averla delusa. Colsi veloce gli altri sguardi, ogni fotogramma di quel film è impresso nella mia mente. Sul “come” si fanno le cose c’era sintonia fra tutti gli adulti di casa. Ma avevo intuito che la nonna, pragmatica e dal cuore immenso, riteneva eccessivo il rimprovero. E per la tenera zia Anna era chiaro che la gioia del fare insieme era più importante della linea dei francobolli. Per rispetto alla prozia non erano intervenute. Ma gli sguardi mi avevano detto tutto. Le nuvole nere erano fuggite vie, ed ero tornata chiacchierina e ridente.
Questo ricordo intenso è tornato alla mente, freschissimo e intatto, parlando con una giovane paziente, proprio sull’importanza di fare bene le cose. Era manìa? No. Era – ed è – questione di educazione, di efficacia esecutiva, diremmo oggi, e di stile. Come lo era l’attenzione alla scelta delle parole, che rendeva i suoi racconti di viaggi stupendi per me, con quell’italiano così scintillante e fotografico che nel racconto viaggiavo con lei.
Infatti il messaggio è passato. Il “come” si fanno le cose è diventato un mantra, per me. Dire «ho fatto» non basta. Il fare non qualificato dalla qualità dell’esecuzione diventa irrilevante. O addirittura negativo. Il “come” si fanno le cose ne definisce il valore. Non solo: il come definisce anche la persona che agisce. Ne descrive gli intenti, l’impegno, o il disinteresse, il livello di passione, o di noia, il rispetto o meno per il destinatario di quel gesto, che sia un amico, la partner, un familiare o un allievo. Il “come” parli o scrivi, seduci o ami, cucini o guidi, insegni o suoni, lavori o canti, dice al mondo chi sei. E’ il biglietto da visita più vero ed efficace, di cui abbiamo smarrito il valore. Da ritrovare con cura.

Apprendimento Educazione Memoria e ricordi / Amnesia Natale e feste natalizie

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