«Ero forte in inglese perché avevo un’insegnante bravissima». «La matematica mi è andata di traverso perché avevo un insegnante che me l’ha fatta odiare». «Non voglio più andare a scuola perché è solo una perdita di tempo». «Cos’hai fatto di bello oggi a scuola? – Niente. Noia e basta».
Che cos’è cambiato, nella scuola di oggi? Perché il livello medio della preparazione è crollato, con un crescente analfabetismo di fatto? Certo, l’invasione del tempo e della vita da parte dei social ha avuto effetti devastanti. Tuttavia si è obiettivamente abbassato il livello culturale e motivazionale degli insegnanti. E quello dei genitori. L’ondata di bocciature all’ultimo test di entrata a Medicina non deve far abbassare i criteri di ammissione, prolungando quel pericoloso e fuorviante “tutti promossi” delle ultime maturità. Semmai deve farci interrogare su un fallimento: a furia di abbassare gli standard medi di insegnamento, di formazione e di apprendimento, abbiamo un livello medio di studenti sconfortante. Con eccezioni brillanti, d’accordo. Ma la media è drammatica. Come ci cureranno, questi futuri medici, se provengono da scuole in cui la metà degli studenti di liceo non sa comprendere un testo scritto?
Che cosa è andato storto? E perché l’insegnamento, anche come professione, è oggi in caduta libera nella scala del valore e del prestigio sociale? Eppure insegnare è una delle più stimolanti e generose attività umane, in tutti gli ambiti della vita, familiare, scolastica e professionale. Per me è anche uno splendido, luminoso ed efficace anti-age del cervello e del cuore. L’etimologia entusiasma: deriva dal latino tardo “in-signare”: “lasciare un segno” (nella mente), in cui si fondono e si esaltano la qualità e la passione dell’insegnante, e la recettività, feconda di idee, di talenti e di vita, dei giovani allievi, in un costante rapporto dialettico vivo e dinamico.
Quanti insegnanti, ma anche quanti genitori, si chiedono, ogni giorno: quali segni ho lasciato oggi nella mente e nel cuore dei miei allievi? E dei miei figli? Qual è il segno più significativo che ho cercato di trasmettere in quest’ora, in questo ciclo di lezioni, in questo tempo condiviso? E se non è rimasto nulla, perché è successo? Erano chiusi le orecchie, gli occhi, il cervello, il cuore dei miei allievi? Di tutti o di qualcuno? Che cosa ha fatto la differenza? E quante volte il segno, il messaggio, non è arrivato all’allievo, o al figlio, perché in realtà quel messaggio non è nemmeno partito? Nel senso che io, insegnante, e genitore, non mi sono nemmeno reso conto di credere di insegnare, mentre in realtà il mio dire, e il mio agire, erano chiusi in un monologo autoreferenziale?
Chi, come me, ha avuto nella scuola statale l’immensa fortuna di incontrare insegnanti generosi e appassionati, sa per vita quanto il loro segno continui a essere vivo e fecondo nella mente e nel cuore. Quanto abbia segnato con lettere d’oro la fase più recettiva della vita. E quanto sia stato per gli insegnanti stessi motivo di gioia, di soddisfazione, di ricompensa emotiva e professionale, primo motivatore di una qualità di lezioni incomparabile. Duplice era l’attenzione: che il messaggio passasse, lasciando segni limpidi e chiari, e che il segno attivasse altre risposte, altre risonanze, dove le nozioni erano lo spunto, l’opportunità di un dialogo continuo, a più livelli, dove ogni apprendimento era motivo di riflessioni, discussioni, crescita interiore. Non era questione di stipendio, il compenso era basso allora come oggi. La sensazione era che avessero un senso altissimo del valore dell’insegnamento e della responsabilità che esso comporta: nel far volare i talenti, o farli affondare se la scuola resta una palude di noia. Certo, i genitori avevano un rispetto assoluto degli insegnanti, e anche questo concorreva a un’atmosfera di attenzione e valorizzazione. La famiglia stessa metteva in pratica l’attenzione a insegnare, e a far approfondire quanto appreso a scuola, in base al livello di competenza. Anche allora c’erano insegnanti carismatici, di caratura straordinaria, e insegnanti mediocri. Tuttavia avere due-tre insegnanti di ottimo livello per anno potenziava il livello di crescita e di apprendimento dell’intera classe.
L’implosione culturale in corso è esponenziale. Cosa dovremmo fare per rallentare il declino, e, forse, ripartire? Togliere smartphone e social vari è indispensabile. In parallelo, bisognerebbe ritrovare il gusto di studiare e di insegnare, in famiglia e a scuola. Oggi, ancor più di ieri, il livello culturale della famiglia fa la differenza e accentua i divari sociali. Purtroppo la scuola non è più strumento di emancipazione sociale. Dov’è la Sinistra? Perché ha tradito e dimenticato Antonio Gramsci, carismatico alfiere del valore dello studio e dell’istruzione?
Che cos’è cambiato, nella scuola di oggi? Perché il livello medio della preparazione è crollato, con un crescente analfabetismo di fatto? Certo, l’invasione del tempo e della vita da parte dei social ha avuto effetti devastanti. Tuttavia si è obiettivamente abbassato il livello culturale e motivazionale degli insegnanti. E quello dei genitori. L’ondata di bocciature all’ultimo test di entrata a Medicina non deve far abbassare i criteri di ammissione, prolungando quel pericoloso e fuorviante “tutti promossi” delle ultime maturità. Semmai deve farci interrogare su un fallimento: a furia di abbassare gli standard medi di insegnamento, di formazione e di apprendimento, abbiamo un livello medio di studenti sconfortante. Con eccezioni brillanti, d’accordo. Ma la media è drammatica. Come ci cureranno, questi futuri medici, se provengono da scuole in cui la metà degli studenti di liceo non sa comprendere un testo scritto?
Che cosa è andato storto? E perché l’insegnamento, anche come professione, è oggi in caduta libera nella scala del valore e del prestigio sociale? Eppure insegnare è una delle più stimolanti e generose attività umane, in tutti gli ambiti della vita, familiare, scolastica e professionale. Per me è anche uno splendido, luminoso ed efficace anti-age del cervello e del cuore. L’etimologia entusiasma: deriva dal latino tardo “in-signare”: “lasciare un segno” (nella mente), in cui si fondono e si esaltano la qualità e la passione dell’insegnante, e la recettività, feconda di idee, di talenti e di vita, dei giovani allievi, in un costante rapporto dialettico vivo e dinamico.
Quanti insegnanti, ma anche quanti genitori, si chiedono, ogni giorno: quali segni ho lasciato oggi nella mente e nel cuore dei miei allievi? E dei miei figli? Qual è il segno più significativo che ho cercato di trasmettere in quest’ora, in questo ciclo di lezioni, in questo tempo condiviso? E se non è rimasto nulla, perché è successo? Erano chiusi le orecchie, gli occhi, il cervello, il cuore dei miei allievi? Di tutti o di qualcuno? Che cosa ha fatto la differenza? E quante volte il segno, il messaggio, non è arrivato all’allievo, o al figlio, perché in realtà quel messaggio non è nemmeno partito? Nel senso che io, insegnante, e genitore, non mi sono nemmeno reso conto di credere di insegnare, mentre in realtà il mio dire, e il mio agire, erano chiusi in un monologo autoreferenziale?
Chi, come me, ha avuto nella scuola statale l’immensa fortuna di incontrare insegnanti generosi e appassionati, sa per vita quanto il loro segno continui a essere vivo e fecondo nella mente e nel cuore. Quanto abbia segnato con lettere d’oro la fase più recettiva della vita. E quanto sia stato per gli insegnanti stessi motivo di gioia, di soddisfazione, di ricompensa emotiva e professionale, primo motivatore di una qualità di lezioni incomparabile. Duplice era l’attenzione: che il messaggio passasse, lasciando segni limpidi e chiari, e che il segno attivasse altre risposte, altre risonanze, dove le nozioni erano lo spunto, l’opportunità di un dialogo continuo, a più livelli, dove ogni apprendimento era motivo di riflessioni, discussioni, crescita interiore. Non era questione di stipendio, il compenso era basso allora come oggi. La sensazione era che avessero un senso altissimo del valore dell’insegnamento e della responsabilità che esso comporta: nel far volare i talenti, o farli affondare se la scuola resta una palude di noia. Certo, i genitori avevano un rispetto assoluto degli insegnanti, e anche questo concorreva a un’atmosfera di attenzione e valorizzazione. La famiglia stessa metteva in pratica l’attenzione a insegnare, e a far approfondire quanto appreso a scuola, in base al livello di competenza. Anche allora c’erano insegnanti carismatici, di caratura straordinaria, e insegnanti mediocri. Tuttavia avere due-tre insegnanti di ottimo livello per anno potenziava il livello di crescita e di apprendimento dell’intera classe.
L’implosione culturale in corso è esponenziale. Cosa dovremmo fare per rallentare il declino, e, forse, ripartire? Togliere smartphone e social vari è indispensabile. In parallelo, bisognerebbe ritrovare il gusto di studiare e di insegnare, in famiglia e a scuola. Oggi, ancor più di ieri, il livello culturale della famiglia fa la differenza e accentua i divari sociali. Purtroppo la scuola non è più strumento di emancipazione sociale. Dov’è la Sinistra? Perché ha tradito e dimenticato Antonio Gramsci, carismatico alfiere del valore dello studio e dell’istruzione?