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Irène Nemirovsky e sua figlia: una storia appassionante

09/01/2012

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Un’infanzia infelice è come un’anima senza sepoltura: geme in eterno”. In quest’infanzia infelice, nonostante la ricchezza della famiglia, sta la musa dolente e creativa di Irène Némirovsky, scrittrice straordinaria, che conobbe un grande successo tra le due guerre in Francia, e di sua figlia Elizabeth. Ebrea russa, emigrata a Parigi quando la Russia della Rivoluzione divenne pericolosa per gli ebrei, Irène credette di aver trovato in Francia una nazione ospitale, di cui fidarsi. Non colse i segni inquietanti di quanto il Paese in cui credeva stesse cambiando in peggio. Non fuggì. Fu deportata, come migliaia di altri ebrei emigrati in Francia, come il marito. Morì ad Auschwitz il 19 agosto del 1942. Avrebbe avuto per sempre 39 anni. Morì poco dopo anche lui. Si salvarono le due figlie perché la maggiore, biondissima, assomigliava alla figlia dell’ufficiale tedesco che stava controllando gli ebrei per la deportazione. L’uomo la guarda. Toglie di tasca la fotografia della figlia: «Sì, le somiglia». Serio, dice alla governante: «Non porteremo via le bambine stasera. Tornate a casa. Verremo a prenderle domattina». La donna capisce. Aveva un fratello nella Resistenza e riesce a far nascondere le piccole, che sopravvivono alla morte dei genitori, di cui per anni non sanno più nulla. Per anni continuano a scrutare i passanti, le persone alla Gare de l’Est, sperando di ritrovare almeno uno dei genitori. Finché, dopo anni, non arriva la certezza della loro morte. Non è facile essere dei sopravvissuti. Il senso di colpa, misterioso e insidioso, può essere devastante. Madre e figlia, per diversi e intrecciati destini, conoscono gli abissi della solitudine e dell’infelicità. E il bisogno di testimoniare l’abisso.
Sì, un’infanzia infelice è come un’anima senza sepoltura, geme in eterno. Tutti coloro che hanno avuto un’infanzia così riconoscono con un’onda di commozione la verità di questo pianto silenzioso. Chi ha avuto un’infanzia dolente, ha cicatrici che continuano a far male. Ha segni non solo psichici, ma anche fisici, che una mente attenta sa riconoscere. Sente dentro un’inquietudine, un senso di incompiutezza, un vuoto di affetti e, a volte, di senso, un dolore sordo che continuano a chiedere di essere acquietati. Quando il dolore è tremendo, viene rimosso, richiuso nei sotterranei dell’anima. Lì continua ad esistere e ad agire. Infiltra le fondamenta della casa, dell’intera personalità. Può minarle, e allora si cerca l’oblìo nell’autoannientamento: fuggendo nel cibo, nell’alcol, nella droga, nel sesso promiscuo e disperato, nella velocità suicida. Se invece si hanno talenti e la fortuna di poterli coltivare, il dolore può essere distillato e sublimato nel lavoro, nella scrittura, nella musica, nel disegno, nella scultura. Irène, coltissima (russa, scrive in un francese icastico e impeccabile), diventa una scrittrice di formidabile efficacia espressiva: a 26 anni, il suo primo libro, “David Golder”, pubblicato nel 1929 a Parigi, diventa un caso letterario. Ogni anno un libro, finché la morte la coglie deportandola, all’apice del successo.
Volete conoscerla? Volete appassionarvi a una storia vera e tragica, che attraversa la Russia e l’Europa dai primi del Novecento al 1942? Leggete “Mirador. Irène Némirovsky, mia madre”, scritto dalla figlia minore Elizabeth Gille (Fazi Editore, 2011). Non è un libro. È un canto d’amore filiale, fatto di sogni, di intuizioni: «Non ho altra scelta – scrive Elizabeth, che aveva solo 5 anni quando la madre fu deportata – se non richiamare alla memoria l’irrevocabile: ciò che fu, ciò che si interruppe, ciò che si chiuse…». Elizabeth comincia a scrivere a cinquant’anni, quando un intenso profumo di tigli le ricorda Kiev, dove la madre era nata. E scompare, scrivendo di lei: moderna, ma non meno tragica Antigone. Ha meditato tutti i suoi scritti, ha assorbito in ogni cellula la sua opera fino a narrarne, in prima persona, i moti più segreti dell’anima, i pensieri, i conflitti, fino a sognarne, e scriverne – delle vere memorie autobiografiche. Un caso unico nella letteratura. Nel libro, infatti, la protagonista narrante è Iréne, la madre. Di lei, splendida creatura, sensibile e spigolosa, brillante e solitaria, ci ricorderemo per sempre.
Il libro è un canto d’amore che accarezza la madre perduta, e intanto ci accompagna in una famiglia ebrea ricca e influente, ci fa attraversare Kiev, San Pietroburgo e Mosca negli anni del primo conflitto mondiale, ci inquieta con le angosce delle persecuzioni, le fughe, ci sorprende con inattese oasi di generosità. Filma il successo di Iréne in Francia, e la spirale di inquieta attesa ineludibile, nonostante i chiari segni («perché mia madre non si è nascosta»), fino alla tragedia finale. E’ un canto d’amore che ci tocca in modo misterioso, profondo. Per la potenza del destino, per la ferocia delle guerre e delle persecuzioni che nei secoli ripropongono le stesse giustificazioni. Per le crudeltà, anche familiari: la nonna di Elizabeth, madre di Irène, è un mostro di egoismo, per tutta la vita. Dopo la guerra, quando la governante le porta le nipotine nascoste e salvate a costo della sua stessa vita, la vecchia, che aveva salvato se stessa e i beni, grazie alla cittadinanza lettone che aveva avuto la furbizia di ottenere in tempo, non apre nemmeno la porta. Si limita a dire, lasciando le piccole al loro destino: «Esistono istituti per bambini bisognosi a cui rivolgersi». Potranno sopravvivere e studiare grazie alla generosità dell’ultimo editore di Irène.
Di tutto Elizabeth ci dà testimonianza, stando nell’ombra dell’Io narrante materno, con una scrittura avvolgente e nitida, precisa e calda. “Mirador” è più di una storia avvincente. E’ un canto d’amore, dove sussurrano l’assenza, lo struggimento, la nostalgia di un abbraccio. Da leggere. Per sognare. Per ricordare. Per pensare.

Articoli sulla Shoah pubblicati sul sito della Fondazione Alessandra Graziottin

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