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Il tempo guarisce? Dipende da come lo si vive

22/08/2016

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

«Il tempo guarisce», si dice. E’ vero? La variabile critica è come si vive quel tempo, come lo si abita. Vale per la salute, per le ferite d’amore, per le delusioni nel lavoro e nella vita. Nella salute ogni trauma – un’infezione, una ferita, un’ulcera – scatena un’infiammazione amica quando è finalizzata, di intensità proporzionale al danno da riparare e di durata sufficiente a ripristinare l’architettura del tessuto, con le diverse cellule al posto giusto, per un pieno recupero della funzione. Il tempo necessario alla piena guarigione richiede che la lesione non subisca ulteriori infezioni; che il corpo abbia a disposizione i materiali necessari per ricostruire il tessuto, tra cui vitamine, sali minerali, aminoacidi, ormoni; e operai ricostruttori, per esempio fibroblasti, osteoblasti e così via, a seconda dell’organo. Ci vuole il progetto di ricostruzione, scritto nel nostro DNA. E un tempo fatto di due fasi: la prima, necessaria a ripulire i detriti per passare alla ricostruzione della “citoarchitettura”, ossia della sofisticata struttura cellulare del tessuto sano. La seconda è quella della rimessa in funzione, della “riabilitazione” come sanno tutti coloro che hanno subito una frattura. Essenziale è che nella prima fase ci sia il riposo, per dare al corpo la possibilità di concentrare tutte le energie sulla riparazione del danno. E che nella seconda il recupero sia graduale, finalizzato a ritrovare la pienezza funzionale non solo della parte ferita ma dell’intero corpo e della mente: quella “convalescenza” oggi sempre più amputata dalla concitazione di tornare a un’efficienza teorica che non rispetta i tempi di recupero del corpo. Quando l’infiammazione diventa cronica, perché non ne sono state rimosse le cause e/o perché si è chiesto al corpo di tornare in pista prima che la riparazione fosse completa, l’incendio biologico continua ingovernato e il dolore che l’accompagna diventa malattia. Il tempo passa, ma non guarisce affatto: anzi cronicizza la lesione e lo stato di patologia.
Lo stesso vale per le delusioni d’amore: c’è la prima fase della ferita affettiva, con un’infiammazione emotiva che è anche “neuroinfiammazione”, ossia incendio biochimico del cervello. E’ questa la base biologica della depressione, dei disturbi del sonno e dell’appetito, dell’astenia, dell’affaticabilità, dei dolori fisici che accompagnano le ferite affettive. Di nuovo, anche nella psiche il tempo è amico se è finalizzato per analizzare la ferita, ripulirla e curarla, con intensità proporzionata alla gravità del trauma emotivo e di durata sufficiente a ripararlo. Quando invece ci si incista a guardare il passato, a recriminare sul danno subito, a sprofondare nel gorgo maligno del rimpianto anche l’infiammazione da ferite emotive diventa patologica e nemica della salute. Possono passare mesi e anni, ma il dolore della perdita è sempre lì, anzi diventa patologico: «Non si è più ripreso/a». A volte quest’infiammazione può essere così grave da devastare la competenza del sistema immunitario, o della funzione cardiaca. Ed ecco l’emergere di un tumore dopo uno stress emotivo prolungato, o la morte, letteralmente, per “crepacuore”, quando la vasocostrizione delle arterie coronarie da prolungata sofferenza emotiva può causare un infarto fatale.
Non basta dunque che il tempo “passi”, ma che abbia una sua danza: tra un necessario tempo “passivo”, per dare a corpo e mente modi e tempi per ritrovare un nuovo assetto dopo la fase acuta, e un tempo quietamente attivo, nell’ascolto del corpo e del dolore del cuore. Se c’è stato un lutto, il trauma emotivo in assoluto più difficile da superare, il tempo kairós, il tempo benedetto, è quello che ci porta a interiorizzare la persona perduta, a sentirla presente e viva nella nostra mente e nel nostro cuore, per guardare avanti con ritrovata serenità. A volte con maggiore saggezza e pacatezza: ogni morte di una persona amata ci ricorda l’effimero della vita e dovrebbe stimolarci a ritarare priorità e significato del vivere, anche nel riscoprire il valore di affetti vicini o di una dimensione spirituale.
La pausa estiva può essere preziosa per superare le molte ferite che l’anno ci ha portato. Riposo, certamente, ma anche ascolto del cuore, dell’anima, dei sogni. Ascolto dei livelli di energia. Non stordimento, ma gusto di risentire il corpo che ricarica le batterie: qualsiasi cosa sia successa, con una buona convalescenza fisica ed emotiva il cuore torna a sorridere. Anche meglio di prima. Perché saper assaporare la luce della vita, con più consapevolezza e gusto, è un’arte che si affina dopo le notti più buie, del corpo e dell’anima, se il tempo è ben abitato.

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