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Epidemie, gli addii perduti

Epidemie, gli addii perduti
13/04/2020

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Bergamo, 19 marzo 2020: nell’oscurità della sera, una lunga fila di autocarri militari trasferisce lentamente le bare degli uccisi dal SARS-Cov-2 ai luoghi ove le salme verranno cremate. Strumenti di guerra, quei camion sono trasformati in strumenti di pietas, di rispetto per i morti.
Ho riflettuto su quelle immagini. Bare che si allontanavano nella sera, su camion guidati con calma prudente, forse con commozione, da giovani soldati sconosciuti. Prima della vita, che cosa toglie quest’infezione virale polmonare che costringe centinaia di persone ad essere intubate in parallelo? Toglie gli addii. Istanti preziosi che possono pacificare la separazione, quando siano vissuti bene. O inquietarci a lungo, quando la morte è arrivata per un incidente inatteso. O per una infezione, veloce ma non istantanea. Dove il tempo e il modo per l’addio ci sarebbero, se non fosse un’epidemia a rapidissima contagiosità, e selettiva aggressività. «Se fossi lì, intubata in rianimazione, quali sarebbero i miei pensieri, le mie emozioni, forse i miei rimpianti?».
Quando la via della vita è arrivata con fatica all’allungo finale, i mille sogni che animano e inquietano i nostri giorni scompaiono. Sfumano fugaci nel cielo come i colori dell’arcobaleno. Negli ultimi metri, riaffiora urgente il bisogno che avevamo da bambini: l’abbraccio tenero e sicuro della persona che ci ama di più. Un abbraccio che sciolga la paura del buio e l’angoscia delle tenebre. Una carezza che calmi e conforti. Uno sguardo amato che ci dica: «Ti voglio bene. Sono qui con te». E’ forse il bisogno di quell’abbraccio amato, che chiude il cerchio della vita, a far dire ai soldati che muoiono al fronte un’ultima parola: «Mamma...».
La fame d’aria di chi ha una polmonite interstiziale è urgente e drammatica. Essere intubati, con l’ossigeno che arriva dritto ai polmoni, aiuta a cogliere una chance in più di farcela, se la chance c’è ancora. Non si può parlare. Solo sentire, voci e rumori. Quella solitudine, privata del conforto dell’addio accompagnato, può essere più amara della morte. L’altro addio perduto è per chi resta. Per non esser potuto stare vicino fino all’ultimo. Per non aver potuto onorare lo scomparso un’ultima volta.
Omero, all’alba della nostra civiltà, sceglie il vecchio Priamo per dar voce al bisogno di dare «onorata sepoltura» al più caro tra i morti, il figlio Ettore. Sceglie Priamo per dare una voce sola all’antica pietas, che è l’altro volto della guerra. Pietas come sentimento, profondo e urgente, di onorare i morti, di dare pace al corpo e all’anima, con un degno addio. Achille ha ucciso Ettore, vendicando la morte di Patroclo e imprimendo al conflitto di Troia una svolta decisiva. Nel ventiquattresimo canto dell’Iliade, Omero racconta che Priamo si reca alla nave di Achille con «doni infiniti»: il riscatto di guerra, per ottenere la restituzione non di un figlio vivo, ma del corpo straziato del figlio morto. Doni infiniti, misura del valore del figlio ma anche dell’immensità del suo dolore, e del dovere di onorarlo, di cui la pietas è misura. Priamo, piegato dagli anni e dal dolore, si inginocchia piangendo davanti ad Achille, per chiedergli quel corpo amato. E gli parla di suo padre lontano. Improvvisamente, nasce fra i due un dialogo che, per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, esprime una verità universale: la sofferenza, la morte, il rimpianto accomunano gli esseri umani. Priamo piange il figlio, rannicchiato ai piedi di chi lo ha assassinato, e Achille piange Patroclo e il padre lontano: «S’alza per la dimora quel pianto».
Non esistono vite risparmiate dal male. Tutti siamo chiamati a con-piangere, ieri come oggi. Tutti siamo chiamati al compito esigente del soccorso e della consolazione. Questo virus, veloce e indifferente al dolore che provoca, privandoci della vita e degli addii, ci sfida a cambiare pensiero e azione: quello che i Greci antichi chiamavano “metánoia”. Il primo monito è vivere relazioni intense e profonde ora, con cura e dedizione. Non si è soli, dentro, se si ama e si è amati. L’addio diventa un arrivederci, anche lasciando il cuore in una rianimazione. Il secondo, è onorare i propri defunti con appropriata liturgia. Priamo e Achille, ma anche il monaco de “L’arpa birmana”, che dedica la vita a seppellire i corpi dei soldati morti nella giungla durante il secondo conflitto mondiale, vivono una speranza: finché l’uomo sarà capace di “piangere insieme”, la morte non avrà l’ultima parola. Morti e vivi avranno finalmente pace, dopo il giusto addio.

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