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Delitti in famiglia, fra passato mitico e attualità mediatica

24/10/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

L’assassino abita in casa: una vittima su tre viene uccisa da consanguinei. Crescono gli omicidi in famiglia, compiuti non (solo) da persone in condizioni disperate o di estrema povertà, ai limiti della società, ma anche da uomini e donne che per educazione e condizioni sociali potrebbero/dovrebbero trovare altre soluzioni, più civili e modificabili, alle loro difficoltà personali.
E’ una novità, l’omicidio in famiglia? No. Dai tempi di Caino e Abele la famiglia è (anche) un covo di assassini. Reali o psichici. I miti di ogni popolo narrano di dinamiche familiari truculente. La nostra matrice greco-latina ne contiene a decine, dai classici parricidi di Cronos e Zeus alla vendicatrice Medea, icona di tutte le madri assassine. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque. Al punto che queste figure sono definiti “archetipi”, ossia modelli originali, paradigmi di pulsioni e comportamenti radicati nella profondità della psiche umana anche se normalmente controllati e “sublimati”.
Negli anni Settanta, Morton Schatzman nel suo classico “Soul murder” (Assassinio d’anima, tradotto in italiano in “La famiglia che uccide”, Feltrinelli, 1973) analizzava le molte ragioni psicodinamiche e sociali per cui la famiglia può anche essere un terreno di repressioni e guerre spietate, fino alla distruzione emotiva, alla malattia mentale o al suicidio. Ma anche alla distruzione fisica e all’omicidio. Amore e odio, presenti in tutti i rapporti significativi, trovano nella rete dei rapporti famigliari un contenitore elastico, duttile, capace – se sano – di modulare e convertire le emozioni forti in energia costruttiva. Quando invece il contenitore diventa rigido e sempre più compresso, può determinare una tale fusione nucleare di sentimenti distruttivi da tradursi in potenza omicida, non solo in menti malate. Distruttiva come un’atomica.
Il motore profondo dell’istinto omicida endogamico (ossia rivolto verso consanguinei, persone che condividono con noi almeno parte del patrimonio genetico) percorre dunque i millenni. Negli ultimi decenni vi sono stati tuttavia alcuni cambiamenti cardinali: non tanto nelle motivazioni individuali, quanto nella risposta che la società stessa dà all’assassinio e all’assassino. Innanzitutto, la spettacolarizzazione di queste morti violente, in alcuni casi più che in altri. Ecco che allora Erika che uccide madre e fratello, Annamaria che uccide il figlio, occupano i media per mesi e anni, per non parlare dei vari maschi che hanno sterminato genitori o famiglie intere. La fame di morte diventa ancora più vorace quando si pesca nel torbido e l’assassino è incerto, anche se certa è la morte e certo che l’assassino sia un familiare, come per Sara di Avetrana.
In realtà, si potrebbe dire che cambiano i mezzi, ma spettacolarizzazione, in senso molto lato, c’è sempre stata: grazie alla Bibbia e alle forza narrativa della religione, Caino e Abele hanno attraversato i millenni diventando sì, i paradigmi dell’assassino familiare e della sua vittima innocente, ma anche della punizione che ad essa è seguita. Grazie alla poesia e al mito, Medea è diventata a suo modo un’icona della vendetta omicida intrafamiliare. Ma a posteriori. Proprio perché diventati archetipi di dinamiche emozionali profonde, questi assassini arcaici incarnano tutta la potenza atomicamente distruttiva che la famiglia può possedere. Una differenza sostanziale, tuttavia, è la sincronicità attuale, verso l’asincronia passata. La spettacolarizzazione è oggi contestuale all’assassinio. Proprio da questa sincronia deriva la seconda differenza: omicidi e presunti omicidi possono diventare star e modelli da imitare. O rischiano di diventarlo. Basti vedere le centinaia di lettere di plauso che Erika ha ricevuto in carcere e l’attenzione mediatica che sta ricevendo ora, alla soglia dell’uscita dal carcere a dieci anni (solamente) dal duplice omicidio. Come se la capacità di compiere un gesto così estremo e definitivo non fosse più un fattore di orrore, disgusto e condanna, ma di fascinazione che aumenta il valore sociale della persona, come se essere un’assassino/a diventasse una stella al merito.
Complice di questa deriva non è solo l’industria dei media, che corre dove corre la domanda del pubblico: fortissima sui temi di amore e morte, di odio e sangue, di passione e vendetta. Non è solo l’evoluzione tecnologica, che ha fatto del virtuale la realtà, per cui uccidere è un’idea senza echi emozionali, non più disturbante dello schiacciare un moscerino. Lo sono, soprattutto, la deriva delle norme, la perdita del senso morale e la paralisi dell’etica vera, al cui centro dovrebbe stare un indiscutibile “Non uccidere”. Comandamento violato con arroganza negli assassinii intrafamiliari che spesso non avvengono nemmeno per odio, ma per puro interesse economico, per ereditare o impossessarsi comunque di denaro familiare, come succede sempre più spesso negli omicidi di genitori effettuati da figli maschi. Un assassinare banalizzato, meditato a freddo e organizzato nei dettagli.
Quando gli assassini sono giovani, si punta molto sulla “riabilitazione”: che dovrebbe però avvenire durante e dopo una congrua espiazione (sempre di omicidi si tratta). Perché l’assassino possa davvero “redimersi” ci dovrebbe essere comprensione dell’immensità del crimine compiuto, assunzione della colpa, pentimento profondo e sincero, e rinascita psichica ed etica. Ma questo percorso, difficile e doloroso, se sincero, richiede una condizione essenziale: riflessione e silenzio, aiutati da persone competenti certo, ma assolutamente lontano dal clamore e dalle seduzioni dei media.

Famiglia e rapporti familiari Omicidio / Femminicidio / Infanticidio Riflessioni di vita

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