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Come sopravvivere al suicidio di una persona amata

30/05/2005

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Perdere una persona amata ci consegna a un abisso di solitudine. Perderla per suicidio ci consegna all’abisso più profondo: quello in cui – con un taglio unilaterale, violento, netto e irreparabile – muore non solo la persona che avevamo amato ma anche una parte cardinale di noi e tutto quello che si era stati insieme a lei. E’ possibile ridurre il rischio di un suicidio? Sì, se sappiamo coglierne i segni premonitori, se non li banalizziamo, se non mettiamo il silenziatore al senso di inquietudine che ci assale, apparentemente senza motivo, quando un familiare, un amico caro, un allievo sembra estraniarsi da noi e dalla vita. A volte il suicidio non è prevenibile, quando esprime una volontà di morte sulla quale nessun affetto ha più possibilità di incidere.
L’idea che qualcuno che ci è molto caro possa suicidarsi ci sembra sempre remota, una possibilità marginale che si verifica solo nella vita di altri. E’ un pensiero disturbante che eliminiamo quasi automaticamente prima che si affacci alla mente: a noi, ai nostri cari, non succederà mai! In realtà è meglio tenere le antenne del cuore sempre vigili: perché non sappiamo quanto a fondo la disperazione possa colpire, quanto i misteriosi percorsi della mente umana possano far sentire immeritevole il continuare a vivere, quanto il senso di mancanza di futuro possa indurre a farla finita anche persone fino a quel momento apparentemente serene, solide e costruttive.
Il rischio di suicidio è reale e più elevato di quanto si pensi. E’ la seconda causa di morte nei giovani tra i 15 e i 24 anni, dopo gli incidenti stradali. In un indagine del Suicide Prevention Project, nel 2000 circa un milione di persone nel mondo sono morte per suicidio e almeno dieci milioni lo hanno tentato. Nell’anno successivo a un episodio di autolesionismo, il rischio di suicidio è di cento volte superiore a quello della popolazione generale. Ogni medico di medicina generale, ogni anno, entra in contatto con almeno tre pazienti a rischio serio di suicidio e con circa quindici che gli esprimono spontaneamente questo progetto. In Italia, il Friuli Venezia Giulia presenta un triste primato, con un tasso di suicidi di 13,2 per 100.000 contro una media nazionale di 5,9 (dati ISTAT del 2002). Il problema quindi esiste ed è serio, ma viene sottovalutato.
Forse anche per questo, quando il suicidio viene concretizzato quasi di regola ci prende in contropiede. Questa tragedia è una tegola in testa, un terremoto da cui non sopravvive a volte che qualche brandello del passato. Chi sopravvive al suicida è travolto dai sensi di colpa, dalle domande che non avranno risposta, dall’ulteriore solitudine cui spesso viene consegnato dall’allontanarsi imbarazzato di parenti e amici. Come se in quella morte ci fosse una precisa e specifica responsabilità di chi resta, che suscita condanne a mezza voce, pensieri dolorosi e perfino giudizi crudeli.
Esiste una possibilità di uscita dal tunnel di dolore in cui il suicidio ci getta per anni? Esistono dei percorsi di sopravvivenza che possano esserci di conforto? In Svezia e Norvegia, in cui il tasso di suicidi è elevato, sono stati istituiti centri specializzati e gruppi di autoaiuto, per esempio per i figli dei suicidi, o i loro coniugi, e per gli amici di un adolescente che d’impulso abbia chiuso con la vita. In Italia, questi centri specializzati sono rari. Uno si trova in Friuli, presso il Dipartimento di Salute Mentale di Pordenone. Dall’esperienza maturata in oltre vent’anni di professione è nato un libro: “La metamorfosi della sofferenza” (Edizioni Dehoniane Bologna, 2005). Antonio Loperfido, psicologo e psicoterapeuta, autore con Rosèlia Irti di questo libro coraggioso e dolente, condivide con il lettore diversi percorsi di sopravvivenza, diverse possibilità di ridare un senso alla propria vita e alla relazione con la persona perduta, proprio partendo dal racconto di familiari di suicidi. Lo fa con attenzione e rispetto, con dolcezza anche, suggerendo un “silenzio meditativo” che tenta di avvicinarsi in punta di piedi al grande mistero della morte. Mostra con chiarezza lo sgomento di ogni sopravvissuto, il ripercorrere ossessivo degli ultimi tempi alla ricerca di segni che facessero presagire qualcosa, la frattura interiore che a volte sembra irreparabile. Indica anche l’orizzonte di speranza che può riaprirsi quando la persona riesce a ristabilire un dialogo interiore, selezionando i ricordi positivi, come se il suicida fosse ancora affettivamente presente, valorizzando gli aspetti sani di quel rapporto d’amore e d’affetto, antecedenti al gesto che così crudelmente l’ha lasciata abbandonata.
E’ un libro confortante anche per chi abbia perso una persona amata per malattia, o per un incidente. I percorsi per attraversare il territorio del dolore da lutto sono universali, anche se diventano più aspri quando è la volontà di un altro a imporci nostro malgrado di percorrerli. Leggerlo può suggerire una meditazione interiore che è sempre preziosa quando ci si soffermi a riflettere sull’infinita brevità dei nostri giorni e di quelli delle persone che amiamo.

Riflessioni di vita Suicidio

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