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Come il dolore ci trasforma

12/02/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il dolore non ci lascia mai dove ci ha trovati. Questo è vero per il dolore fisico come per il dolore emotivo. Questo grande scacchista ci provoca, ci sgomenta, ci obbliga a confrontarci con le sfide ultime della vita: l’angoscia della malattia, tanto più pervadente quanto più la patologia è grave o difficile da diagnosticare; l’ansia per il futuro; la lacerazione, se non la frammentazione, di vite strutturate; la rottura di ogni equilibrio, fisico e psichico; la paura che il futuro si sia improvvisamente ristretto e una prospettiva di decenni sia ridotta a una manciata d’anni, di mesi o di giorni. Il dolore che irrompe inatteso – per un incidente, un trauma, un’infezione, un cancro, una malattia autoimmune – d’improvviso ci fa toccare con mano l’imprevedibilità e la fragilità sostanziale della nostra vita, che ingenuamente proiettiamo sullo schermo del futuro come se tutto fosse sotto controllo e dipendesse solo dalla nostra volontà.
Il dolore ci inquieta, nel senso profondo, etimologico, di farci perdere la quiete interiore. Ci domina, nel corpo e nella mente. Divora le nostre energie vitali, soprattutto quando da segnale amico (“dolore nocicettivo”) diventa, se inascoltato, malattia in sé (“dolore neuropatico”). Ci prostra, soprattutto se di fronte al dolore ci accorgiamo di essere soli, quando la rete di conoscenze, di amicizie, di affetti, che forse tali non erano, si smaglia, si allenta, si perde. Se di fronte al dolore i medici sanno prescrivere farmaci o terapie antalgiche, ma non sanno più confortarci.
E’ questa percezione negativa, solo distruttiva, del dolore ad aver portato la medicina occidentale ad una tendenza bellicosa, dal punto di vista terapeutico, con un crescendo di aggressività tecnologica e farmacologica di notevole complessità. La tendenza attuale è quella di “uccidere il dolore”, usando analgesici sempre più potenti, che non a caso gli americani chiamano “pain-killers”, assassini del dolore, appunto. In realtà, la tendenza ad assassinare il nemico, prima di aver capito chi sia, che cosa voglia da noi, che cosa ci stia dicendo di essenziale su di noi, sulla nostra salute, oltre che sulla nostra vita, che cosa, addirittura, ci possa insegnare, non è una via saggia. E’ saggio invece diagnosticare il dolore nella sua complessità, capirne le cause e le ragioni, prima di armarci per distruggerlo, finendo, a volte, per perdere tutto. In questa “dia-gnosis”, in questo “conoscere attraverso” come ben ci insegna l’etimo greco, c’è una grande occasione di trasformazione fisica e psichica. Fisica, perché spesso la malattia non è altro che il semaforo rosso che si accende quando il nostro corpo è allo stremo, quando le nostre riserve immunitarie sono prostrate, quando il morale è a terra e lo stress ci sta uccidendo. Quando la fiducia nel futuro si è appannata e l’autodistruttività è diventata operativa addirittura a livello biologico. E psichico, perché il dolore profondo, da malattia ma anche da lutto, sgombera in un istante il campo della nostra vita da tutte le cose (e persone) che credevamo importanti ed erano effimere o comunque ben poco significative. Perché ci mette alla prova. Perché ci fa scoprire, in positivo, un coraggio che non sapevamo di avere; una dignità, nella sofferenza, che avevamo dimenticato nei tempi dei giochi e dei balli; una forza interiore che ci sorprende; una tenacia consistente e, non ultimo, una voglia di vivere che ci vibra fin nell’ultima cellula.
Attenzione: lo dico da medico che usa gli analgesici con convinzione e a dosi piene, secondo l’antico detto “divinum est sedare dolorem”. Quello che desidero condividere è uno sguardo sul dolore che non sia minimalista (dolore=analgesici) ma di grande rispetto per questo scacchista che può portarci sia a capire più a fondo le ragioni di una malattia – e la via migliore per guarirne – sia a esprimere il meglio di noi, anche nella sofferenza, fino a dare un senso più pieno alla nostra vita. E che porti chi soffre ad abbandonare la posizione passiva e annichilita (“toglimi il dolore subito”) per una posizione da protagonista del cammino di guarigione. Che implica non solo trovare “all’esterno” un buon medico che sappia curare il dolore dal punto di vista biologico, anche – ma non solo – con i giusti analgesici, ma trovare anzitutto “all’interno” di noi quel buon medico – che è la nostra parte sana – che ci aiuti a comprendere perché la malattia si sia impadronita di noi e come potenziare la nostra capacità di guarire, fisica e psichica.
In questo percorso di guarigione interiore c’è il grande cammino della ricomposizione delle fratture emotive del passato; della pacificazione con le nostre parti irrisolte; dell’ammorbidimento verso le nostre incongruenze; dell’accettazione dell’incompiutezza. Non necessariamente questa guarigione interiore coincide con la guarigione fisica. A volte la malattia, come è il dolore, è andata troppo avanti. A volte il danno è irreversibile. Più semplicemente, la vita è una malattia fatale in sé: sono solo il tempo che ci è dato, e la sua qualità, le vere variabili in questione. Tuttavia, il cammino di ricomposizione e di ricongiunzione, dopo essersi guardati dentro a fondo, e con coraggio, è la grande opportunità – e il grande dono, se accolta – che il dolore porta con sé. Alla fine non è importante quanto a lungo si viva, ma che si arrivi a chiudere gli occhi sereni, con la sensazione di aver vissuto davvero, in senso profondo, presenti a se stessi, e non alienati, nella gioia come nel dolore, davvero pacificati, in armonia. E’ un cammino di alleggerimento dalla pesantezza a volte greve della vita, e da tutto l’inessenziale e l’effimero di cui ci facciamo vanto e alibi e orgoglio. E’ un cammino di trasformazione e di grande speranza, prezioso quando il dolore incupisce i giorni e rende intollerabili le notti, perché allevia il dolore dell’anima, riportandola verso una serenità luminosa. Ancora più raro, se condiviso con una persona amata.
Diceva bene Montale, ne “Il Girasole” (dalla raccolta Ossi di seppia, 1925) in una poesia che a ragione viene detta “della ricomposizione”:
«Tendono alla chiarità le cose oscure/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture./ Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce.»

Coraggio di vivere Dolore acuto / Dolore cronico Malattia Riflessioni di vita

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