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Collera, veleno dell'anima

15/10/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il ragazzo, l’ultimo di quattro fratelli, era molto collerico. Quando s’infuriava le sue parole erano veleno, i suoi urli ingovernabili. Poi però si rendeva conto dell’errore e qualche volta si scusava. Tuttavia questo non gli impedì di farsi molti nemici e di avere difficili rapporti anche in famiglia, specie con i suoi fratelli. Il padre, che lo amava, era molto preoccupato. Un giorno lo osservò a lungo, poi gli disse: “Figlio, quando ti arrabbi e litighi con una persona, pianta un chiodo in questa tavola di legno. Quando poi ti riappacificherai, togli il chiodo.” Il ragazzo lo prese sul serio. Anche lui amava suo padre e deluderlo lo feriva molto. Ma non aveva il coraggio di ammetterlo, neanche a se stesso. Iniziò comunque a piantare i chiodi. Dopo poche settimane, la tavola era zeppa di chiodi, con qualche buco testimone di un’avvenuta riconciliazione. Arrabbiato anche con sé, il ragazzo cominciò a strappare via furiosamente la prova della sua collera. La tavola era ridotta a un colabrodo. La guardò, come se la vedesse per la prima volta, e cominciò a singhiozzare. “Questo è quello che resta nell’anima di chi ti sta vicino – gli disse il padre – anche quando ti scusi. Quando ferisci con le parole o con i fatti, anche se poi chiedi perdono, la cicatrice, col suo dolore, resta nell’anima per sempre...”.
Questo antico racconto indiano contiene una verità profonda: la semplice metafora della tavola dice meglio di ogni discorso l’effetto indimenticabile di parole e gesti che ci feriscono. Possiamo anche perdonare, più o meno di cuore, ma la ferita resta. A volte ben cicatrizzata, a volte aperta, a volte dolente e suppurante.
Gli attacchi di collera, in particolare, hanno una velenosità sulla quale è necessario riflettere, perché viviamo in una società che ha spaventosamente legittimato l’aggressività, la distruttività verbale e gli insulti a tutti i livelli sociali, anche istituzionali.
Perché la ferita resta? Che cosa impedisce o rende comunque difficile dimenticare? Il vero fattore di radicamento della ferita da collera non sta solo in quello che viene detto, ma nel terremoto neurovegetativo che questo attiva. Nel momento in cui siamo aggrediti, verbalmente o fisicamente, il nostro corpo si attiva per affrontare l’aggressione: il cuore accelera il battito rapidamente, i muscoli diventano tesi e contratti, il respiro si fa breve e accelerato, la sudorazione diventa fredda, la bocca si serra, si asciuga la saliva, siamo combattuti tra l’attacco, anche fisico, e la fuga. L’adrenalina sale a mille. Le antenne del cuore e della mente sono tutte concentrate sull’aggressore. Quello che viene detto, e il modo con cui ci viene detto, con la maschera bruta che ci distorce i tratti tanto più quanto la collera ci domina, il tono di voce sferzante, la violenza minacciosa che avvelena l’aria, tutto concorre ad attivare drammaticamente il sistema di paura. Ed è la reazione neurovegetativa attivata dall’attacco verbale, per non parlare di quello fisico, a scrivere in modo indelebile nella memoria il nome di chi ci ha ferito o insultato, la circostanza, il perché, il come. E’ la somma di paura fisica e di dolore emotivo che piantano il chiodo, letteralmente, nella nostra mente, tanto più a fondo e in modo dirompente quanto più la collera di cui siamo vittime è ripetuta. Questo vale tragicamente per i bambini vittime delle collere frequenti e violente di genitori sempre meno pazienti, vale per mogli e mariti, vale per i genitori di figli ingovernabili che fanno dell’insulto un modo di essere. Le lacerazioni create da questo modo di fare hanno effetti a breve e lungo termine, molto negativi.
Sul breve tempo, l’attacco di collera, specie se subìto, altera il nostro sonno e i nostri sogni. Se ripetuto, crea uno stato di tensione che può tradursi in disturbi “psicosomatici” quali il mal di stomaco o la colite, la cefalea, le mialgie, le lombalgie. Sul lungo termine, può contribuire all’insonnia, alla depressione, all’ipertensione, a disturbi gastrointestinali. Soprattutto, segna con cicatrici profonde le relazioni interpersonali, familiari e professionali.
Rieducarsi a controllare la propria collera, a modulare i toni, ad esprimere le proprie ragioni in modo costruttivo e non distruttivo sembra oggi un atteggiamento addirittura perdente, in un mondo urlato e urlante che fa della prevaricazione uno degli stili del successo.
Eppure, sul lungo termine, la moltitudine di ferite e cicatrici emotive provocate e ricevute comporta un prezzo di cui tutti siamo testimoni. Una solitudine interiore crescente, anche quando siamo con gli altri. Una solitudine profonda e inquieta, cui diamo poi risposte illusorie con palliativi chimici, o con adulatori, se si è in posizione di potere. Ad ogni urlo, ad ogni attacco di collera ingovernato, ripensiamo al chiodo nella tavola. E forse capiremo perché, specie nelle coppie e nelle famiglie, la collera sia il veleno che più uccide l’intimità, perché ferisce e avvelena l’anima, irreversibilmente.

Collera Riflessioni di vita

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