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Carezze per l'anima

14/03/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Ho subìto, un anno fa, un complesso intervento al cuore, in un importante ospedale veneto. Intervento riuscitissimo: «Da manuale!», mi ha detto il cardiochirurgo. Però si sa: quando ti riportano in reparto dalla terapia intensiva e cominciano a diminuirti i farmaci, ti trovi ad affrontare il male con tutta la tua debolezza. Mi hanno assistito amorevolmente tutti: il personale, i parenti, gli amici. Ma in quel periodo desideravo soprattutto la presenza di mia moglie. Veniva verso sera, si sedeva vicino al mio letto, ci stringevamo le mani in silenzio (siamo insieme ormai da sessant’anni). Avevo pudore di raccontare quello che in quei momenti io sentivo: un grande sollievo sia spirituale che fisico, uno scambio, una sensazione mai provata prima. Temevo però che i miei dolori, quasi per il principio dei vasi comunicanti, si trasferissero a mia moglie, ma non avrei mai, comunque, voluto lasciare la sua mano!...”.
Questa struggente lettera, che mi ha commossa, è arrivata in redazione subito dopo la pubblicazione dell’articolo sull’amore come analgesia di lunedì scorso. Desidero condividerla con gli amici – lettrici e lettori – perché ci svela una gamma di sentimenti straordinari, di cui in troppi abbiamo perso il profumo, suggerendo tra le righe di non perdere mai di vista l’essenziale, quando si visita un malato.
Due coniugi, insieme da oltre sessant’anni: un amore profondo, solido e quieto, che cresce silenzioso senza più bisogno di parole, con la forza e la bellezza delle vecchie querce. L’uomo malato, che supera un intervento al cuore, a tarda età: intervento minaccioso e inquietante, perché va a toccare l’organo per definizione simbolo della vita e dell’amore. E allora, nel lento cammino di ritorno alla vita, quando la debolezza fiacca le membra e fa temere che non arrivi domani, ecco la gioia contenuta dell’attesa. L’attesa che tra tanti arrivi lei, la compagna di una vita. Lo sguardo la cerca, e torna insistente e inquieto sulla porta. Finalmente... eccola! Anche lei silenziosa, un po’ stanca, che sorride abbassando gli occhi, per non svelare ad ogni incontro la paura trattenuta di non ritrovarlo più. Quel sorriso che svela appena quello che non si può confessare apertamente nemmeno a se stessi: «Dio sia lodato, ci sei, ci sei ancora! Eccomi, sono qui». Lei si siede vicino e piano gli prende la mano. I vecchi sanno per vita che cosa conta di più, quando si sono attraversate le prove più dure. Ed è struggente il pudore di lui, che non riesce a dirle quanto quella mano gli sia cara, quanto quel conforto sia prezioso e unico, quanto sollievo gli possa dare, più di ogni medicina.
“Pudore”: parola meravigliosa, così densa di verità, e così delicata. Sono i sentimenti più profondi, e intensi e veri, quelli che hanno pudore a svelarsi. Si fanno intuire per una vibrazione, un battito di ciglia, uno sguardo che appena si appanna di gioia e insieme di malinconia. E allora la mano nella mano diventa il ponte perché sessant’anni di amore e di tenerezza, di fatiche e speranze condivise, di litigi e riappacificazioni, di terremoti e giorni di sole, si decantino in un fluido di emozioni che passa in silenzio dall’uno all’altra. Ma ecco la misura dell’amore grande e maturo, dell’amore attento e generoso dell’uomo-quercia. Anche malato, anche dopo un intervento angosciante, non abdica a quel magnifico ruolo teneramente protettivo del maschio adulto e sano: e teme che quel ponte emotivo così forte possa trasmettere a lei anche il suo dolore, “quasi per il principio dei vasi comunicanti”. Non credo che un uomo possa fare una dichiarazione d’amore più bella, alla propria moglie, di quanto ha fatto il gentile lettore che mi ha scritto. Spero che la signora la legga: perché sessant’anni di vita si possono condensare in un incontro e un ritrovarsi che li vale e li riassume tutti.
In noi, che leggendo siamo entrati in punta di piedi in quella stanza d’ospedale, e in silenzio abbiamo ascoltato quei gesti pacati e quelle sintonie d’amore, vibrano tante emozioni: dolcezza, commozione, struggimento, ma anche nostalgia. E forse qualche rimpianto, per tutte le volte in cui siamo entrati nella stanza di un malato e non gli abbiamo preso la mano, non l’abbiamo accarezzata, non abbiamo cercato quel ponte fluido di emozioni silenziose che consola più di ogni parola. Per tutti, ancora una volta, un suggerimento, che sussurra garbato dal racconto di chi ha guardato in faccia la morte, la solitudine, l’angoscia delle ore ultime, la paura di non risvegliarsi più quando l’anestesista ti addormenta per un intervento difficile: ricordiamoci che la cosa più importante, quando andiamo a trovare un malato, è il contatto fisico. Mano nella mano, oppure una carezza sui capelli, o un massaggio lento e gentile sulla fronte o sulle mani, se gradito. Soprattutto se il malato è stanco, debilitato, e magari non ha nemmeno la forza di parlare e persino di ascoltare parole spesso futili, quel contatto arriva al cuore e consola nel profondo. Ricordiamocene sempre. Una carezza sulla pelle è davvero una carezza per l’anima. E può consolare ogni malato, figlio o padre, sorella o marito, amica o innamorato; il bambino piccolo come il vecchio, la donna colta come l’uomo semplice. E se i sentimenti sono grandi e limpidi, può succedere di sentirsi, come Pablo Neruda, “Così vicino che la tua mano sul mio petto è mia, così vicino che si chiudono i miei occhi col tuo sonno”. Non si è più soli. In quell’oasi di tenerezza, seppur per poco, la paura si scioglie e anche il male scompare. Perché si vuole vivere, finché si è amati.

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