Un patrigno ammazza un bambino di botte, dopo averlo picchiato per anni. La madre ritarda il ricovero in ospedale del piccolo e della sorellina, entrambi feriti e sanguinanti, e lava le tracce di sangue, invece di proteggere e salvare i suoi bambini. Quando finalmente chiama i soccorsi, il bambino è morto.
Purtroppo la tragedia avvenuta a Cardito, in provincia di Napoli, il 27 gennaio scorso, non è un caso isolato. Ha anzi caratteristiche che meritano una seria riflessione per la gravità delle collusioni, che sta emergendo nel corso delle indagini, e che mostrano le responsabilità degli adulti pilateschi che non soccorrono i bambini massacrati, fino a lasciarli morire, come a Cardito. O lasciarli amputati dal punto di vista fisico ed emotivo per le conseguenze a lungo termine dei traumi cranici, delle fratture, dello shock, del dolore, della solitudine e della disperazione di sentirsi in preda a un furore omicida, senza nessuno, nemmeno la madre, a difenderli.
Prima di scrivere questo commento ho approfondito il tema su molte ricerche scientifiche condotte in Finlandia, in Svezia, negli Stati Uniti, in Brasile, con un obiettivo: cogliere i denominatori comuni che sottendono gli abusi dei bambini in famiglia, perché noi adulti non continuiamo a restare ciechi, sordi, muti e indifferenti, lavandoci le mani perché «tanto è un caso isolato, quello è un delinquente e quella è una madre scellerata».
Purtroppo non si tratta di casi isolati, anzi, Innanzitutto, gli “step-fathers”, i patrigni o i nuovi partner delle madri picchiano pesantemente i bambini: tre volte di più, in media, rispetto ai padri biologici. Attenzione allora: signore separate, prima di portarvi in casa un nuovo partner pensateci dieci volte, soprattutto se avete maschietti piccoli o figlie peripuberi. La probabilità che un maschietto venga massacrato di botte dal patrigno varia dal 59 al 61%, rispetto alle bimbe piccole. La massima vulnerabilità è nei primi due anni di vita, con una mortalità che può arrivare al 12% dei ricoveri per traumi alla testa da percosse. La probabilità di morire dei bimbi massacrati di botte è dieci volte superiore rispetto ai bambini che arrivano in pronto soccorso pediatrico per incidenti non da abuso.
La tragedia di Cardito è il paradigma di colpevoli collusioni: la madre, innanzitutto. Molti altri studi rivelano che le madri di bambini picchiati e abusati dai patrigni non proteggono i piccoli, e anzi li picchiano molto più di quanto avvenga in famiglie con il padre biologico. Dal punto di vista del bambino, i fattori di rischio che aumentano la probabilità di essere violentemente picchiati sono il piangere, la prematurità, la depressione, l’iperattività: sono bambini fragili, picchiati e feriti come se la fragilità fosse una colpa, le cui condizioni fisiche e affettive peggiorano con il crescere della violenza degli adulti che dovrebbero amarli o, almeno, proteggerli. Dal punto di vista degli adulti che picchiano, abuso di alcol e droghe sono i fattori predittivi più forti.
Chi altri, al di fuori della famiglia, può e deve vedere? Chi può e deve soccorrere un bambino ripetutamente picchiato a sangue? Gli insegnanti, anzitutto. Possibile che una maestra d’asilo o delle elementari non veda i lividi? Possibile che non si accorga dello sguardo disperato di un bambino? Che non senta il grido «Aiutami!» che viene da quegli occhi, da quella tristezza, da quella svogliatezza, da quell’assenza di partecipazione o da un’aggressività scatenata da ben altri furori? A Cardito, a scuola, nessuno ha visto, per mesi e anni. E se ha visto, non ha parlato né è intervenuto in soccorso del piccolo Giuseppe, finché non è stato ammazzato di botte. Si diventa complici, di fatto, quando si nota e si tace: per indifferenza, per paura di ritorsioni, per rassegnazione al degrado, per mancanza di cuore. Non hanno visto i vicini: eppure le scenate violente, anche in famiglia, di rumore ne fanno. E molto. Dovrebbero allertarsi i pediatri e i medici dei Pronto Soccorso. Spesso sul corpo di un bambino ferito o ucciso si trovano poi le tracce di precedenti fratture, che nessuno ha visto. E nessuno ha curato.
I bambini che sopravvivono porteranno per sempre le conseguenze di quell’abuso sistematico. Nelle cicatrici fisiche. Negli incubi notturni. Nei deficit intellettivi post-traumatici che li terranno ai margini della scuola e della vita. Nelle ferite affettive incurabili. Nella solitudine feroce. Nella sfiducia negli adulti: «Se mia mamma non mi ha protetto, di chi altri mi potrò fidare?». Come possiamo non vedere?
Purtroppo la tragedia avvenuta a Cardito, in provincia di Napoli, il 27 gennaio scorso, non è un caso isolato. Ha anzi caratteristiche che meritano una seria riflessione per la gravità delle collusioni, che sta emergendo nel corso delle indagini, e che mostrano le responsabilità degli adulti pilateschi che non soccorrono i bambini massacrati, fino a lasciarli morire, come a Cardito. O lasciarli amputati dal punto di vista fisico ed emotivo per le conseguenze a lungo termine dei traumi cranici, delle fratture, dello shock, del dolore, della solitudine e della disperazione di sentirsi in preda a un furore omicida, senza nessuno, nemmeno la madre, a difenderli.
Prima di scrivere questo commento ho approfondito il tema su molte ricerche scientifiche condotte in Finlandia, in Svezia, negli Stati Uniti, in Brasile, con un obiettivo: cogliere i denominatori comuni che sottendono gli abusi dei bambini in famiglia, perché noi adulti non continuiamo a restare ciechi, sordi, muti e indifferenti, lavandoci le mani perché «tanto è un caso isolato, quello è un delinquente e quella è una madre scellerata».
Purtroppo non si tratta di casi isolati, anzi, Innanzitutto, gli “step-fathers”, i patrigni o i nuovi partner delle madri picchiano pesantemente i bambini: tre volte di più, in media, rispetto ai padri biologici. Attenzione allora: signore separate, prima di portarvi in casa un nuovo partner pensateci dieci volte, soprattutto se avete maschietti piccoli o figlie peripuberi. La probabilità che un maschietto venga massacrato di botte dal patrigno varia dal 59 al 61%, rispetto alle bimbe piccole. La massima vulnerabilità è nei primi due anni di vita, con una mortalità che può arrivare al 12% dei ricoveri per traumi alla testa da percosse. La probabilità di morire dei bimbi massacrati di botte è dieci volte superiore rispetto ai bambini che arrivano in pronto soccorso pediatrico per incidenti non da abuso.
La tragedia di Cardito è il paradigma di colpevoli collusioni: la madre, innanzitutto. Molti altri studi rivelano che le madri di bambini picchiati e abusati dai patrigni non proteggono i piccoli, e anzi li picchiano molto più di quanto avvenga in famiglie con il padre biologico. Dal punto di vista del bambino, i fattori di rischio che aumentano la probabilità di essere violentemente picchiati sono il piangere, la prematurità, la depressione, l’iperattività: sono bambini fragili, picchiati e feriti come se la fragilità fosse una colpa, le cui condizioni fisiche e affettive peggiorano con il crescere della violenza degli adulti che dovrebbero amarli o, almeno, proteggerli. Dal punto di vista degli adulti che picchiano, abuso di alcol e droghe sono i fattori predittivi più forti.
Chi altri, al di fuori della famiglia, può e deve vedere? Chi può e deve soccorrere un bambino ripetutamente picchiato a sangue? Gli insegnanti, anzitutto. Possibile che una maestra d’asilo o delle elementari non veda i lividi? Possibile che non si accorga dello sguardo disperato di un bambino? Che non senta il grido «Aiutami!» che viene da quegli occhi, da quella tristezza, da quella svogliatezza, da quell’assenza di partecipazione o da un’aggressività scatenata da ben altri furori? A Cardito, a scuola, nessuno ha visto, per mesi e anni. E se ha visto, non ha parlato né è intervenuto in soccorso del piccolo Giuseppe, finché non è stato ammazzato di botte. Si diventa complici, di fatto, quando si nota e si tace: per indifferenza, per paura di ritorsioni, per rassegnazione al degrado, per mancanza di cuore. Non hanno visto i vicini: eppure le scenate violente, anche in famiglia, di rumore ne fanno. E molto. Dovrebbero allertarsi i pediatri e i medici dei Pronto Soccorso. Spesso sul corpo di un bambino ferito o ucciso si trovano poi le tracce di precedenti fratture, che nessuno ha visto. E nessuno ha curato.
I bambini che sopravvivono porteranno per sempre le conseguenze di quell’abuso sistematico. Nelle cicatrici fisiche. Negli incubi notturni. Nei deficit intellettivi post-traumatici che li terranno ai margini della scuola e della vita. Nelle ferite affettive incurabili. Nella solitudine feroce. Nella sfiducia negli adulti: «Se mia mamma non mi ha protetto, di chi altri mi potrò fidare?». Come possiamo non vedere?
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