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Una passione per la vita: dalla realizzazione personale alla passione civile

15/06/2005

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano
Relazione presentata il 25 maggio 2005 scorso al convegno su "Donne e nuovi equilibri", organizzato a Milano dalla Fondazione Veronesi

Introduzione

Ringrazio il Professor Veronesi per l’onore di questo invito e per l’opportunità di condividere una riflessione su un passaggio cruciale della vita, che tra i quaranta e i cinquant’anni ci mette di fronte a una straordinaria possibilità evolutiva.
Uscire dalla sola prospettiva della realizzazione personale per aprirci a una misura più grande: essere generosi. Essere generosi di noi, di quello che abbiamo appreso dalla vita, e delle risorse affettive, intellettuali, professionali ed economiche che abbiamo fatto sbocciare e abbiamo coltivato. E’ il passaggio dalla realizzazione personale alla passione civile.
Ho scelto di sviluppare questo tema seguendo una prospettiva evolutiva, in cui ognuna di noi possa trovare i passaggi essenziali delle proprie scelte e del proprio percorso per essere compiutamente se stessa.
E’ la chiusura del primo cerchio, quello della realizzazione personale, che ci consente di pacificarci con noi stesse, con le scommesse e le sfide, le difficoltà e gli scacchi, gli errori di giudizio e di misura, i successi e anche le rinunce, che ammettiamo quando siamo sincere con noi stesse. E’ la chiusura del primo cerchio che ci consente di trovare un passo di danza tra passione e distacco, e di dare un senso compiuto e rasserenato ai chiaroscuri della prima fase della vita.
E’ la chiusura del primo cerchio che ci consente di iniziare il secondo cerchio: quello che ci apre agli altri in modo costruttivo e maieutico, e ci consente di incidere in modo significativo sul mondo che ci circonda, ciascuna nel proprio ambito di eccellenza e con il proprio stile.
Toccherò dunque questi punti:
- la scoperta della vocazione personale;
- la realizzazione personale e i gradi di rilevanza;
- l’attenzione al  cassetto dei sogni e a quello dei rimpianti;
- la maturità, tra passione e distacco;
- i nuovi orizzonti di passione civile.

La scoperta della vocazione personale

Le scelte più importanti della vita, personali e professionali, nascono dagli incontri. Incontri maieutici, reali e simbolici, concreti e metaforici, che fanno emergere in noi la passione e poi la vocazione, la “ghianda”, come diceva Hillman nel suo “Il codice dell’anima” (Adelphi). Che fanno sbocciare l’intuizione di sé, il sogno dentro all’anima che grazie a un incontro può diventare progetto e poi realizzazione.
E’ successo anche a me. Concisamente, parlare degli incontri che mi hanno aiutata a essere me stessa, nella realizzazione personale e professionale, mi consente una breve presentazione personale. Il mio dàimon, l’interlocutore simbolico che ha segnato le mie scelte, è stato il dolore. Questa sorta di cavaliere nero di Tolkien, è entrato nella mia vita nella prima adolescenza, mentre assistevo in ospedale un bambino molto amato. Erano gli anni della guerra del Vietnam, e nel reparto di chirurgia plastica dell’Università di Padova la Croce Rossa internazionale ricoverava anche bambini vietnamiti sfigurati dal napalm, la manine fuse in un unico grumo di pelle. Una bimba, di circa quattro anni, si chiamava Pai e mi chiamava mamma.
Il contatto con il dolore dei bambini ha determinato la prima grande scelta. Tra la passione per il giornalismo e la scrittura – fin da piccola sono sempre stata curiosa del mondo e penavo che avrei fatto l’inviato speciale – e la lotta al dolore e la cura dei piccoli, ha vinto quest’ultima. Poi, durante l’internato in Ostetricia e Ginecologia, a contatto quotidiano con il dolore femminile, così negletto, la folgorazione: diventare ginecologa per solidarietà con le donne.
Gradualmente, durante la specializzazione in Ostetricia e Ginecologia, e le guardie notturne nel reparto di Oncologia Ginecologica, un’ulteriore consapevolezza: era la donna colpita da tumori ginecologici, che volevo aiutare di più.
In quei dialoghi notturni con le mie pazienti, quando l’ospedale diventa finalmente silenzioso, e la frenesia del fare si placa, ho capito di più, sulla malattia e sulla morte, che in tutti i miei libri.
In quelle guardie notturne, soffermandomi in reparto, c’era il tempo interiore perché il dolore uscisse dai confini del caso clinico e diventasse la vita vera della donna ricoverata: la nostalgia dei bambini a casa, il senso di spreco di vita – ora che forse ne era rimasta così poca – quando l’attesa degli esami per la stadiazione del tumore durava giorni e settimane, il senso di femminilità devastata quando la menopausa precoce bloccava il ciclo e la femminilità, ferendo la donna, giovane o giovanissima, con sintomi inattesi e pesanti.
E poi i sintomi sessuali, così inconfessabili e così dolorosi, chiusi dentro il pudore del dire, e la crisi della coppia.
In quelle notti di dialoghi spontanei e intensi, magari dopo una chiamata d’urgenza per un dolore acuto, che era anche paura e bisogno di conforto, sono maturate le due passioni professionali che hanno percorso il primo cerchio della mia esistenza: la sessuologia medica, soprattutto sul fronte del dolore sessuale, per aiutare le donne a ridare le ali alla loro sessualità ferita dalla vita o dalla malattia, e le cure della menopausa, specialmente precoce, da chirurgia, chemio o radioterapia. Un percorso che si è intrecciato con la formazione in psicoterapia.
Un cerchio che si sta chiudendo, mentre sta maturando ora il secondo. Questo non significa “cambiare lavoro”, abbandonare la proprie competenze, l’eccellenza raggiunta, o fare un drastico cambiamento di campo. No, non necessariamente. Per la maggior parte di noi significa una diversa distribuzione dell’energia, un’apertura di altre finestre sul mondo, una maggiore generosità verso gli altri.
Un passaggio che matura nella riflessione su quelli che chiamo “i nostri gradi di rilevanza”.

La realizzazione personale e i gradi di rilevanza

Due sono i grandi obiettivi su cui si misura l’espressione della nostra vita: la realizzazione personale e la rilevanza nel mondo.
Per una realizzazione personale di qualità ci vogliono coraggio, tenacia, disciplina e capacità, anche, di stare fuori dal coro. Anzitutto coraggio: questa virtù meravigliosa, antica, cifra di qualità dell’uomo e della donna che sanno essere se stessi, e staccarsi dalla seduzione del conformismo e della mediocrità.
Perché ci vuole proprio coraggio, per essere se stessi? Perché questa forza morale mette in grado di intraprendere grandi cose e di affrontare difficoltà e pericoli, con piena responsabilità, per esprimere compiutamente i propri talenti e la propria differenza, nell’amore, nel lavoro, nella vita.
L’eredità migliore che noi possiamo lasciare a un figlio, a un allievo, alle generazioni che verranno è questo senso del coraggio e della passione etica nella realizzazione personale.
Questo incoraggiamento a essere se stessi, ad accettare che di regola l’eccellenza richiede l’allenarsi quotidiano a superare ostacoli, a prepararsi, ad affrontare la frustrazione della sconfitta, ad affinare la capacità di analisi e di accettazione costruttiva delle proprie responsabilità nell’errore.
Lo stiamo facendo? A me sembra che questo sia uno dei valori più traditi nell’educazione dei giovani. Un valore che merita di rientrare nei nostri impegni del secondo cerchio.
Non possiamo parlare di passione civile se non trasferiamo questo testimone, questo strumento principe della realizzazione di sé, alle generazioni più giovani.
Se lasciamo che dilaghino il cinismo, la sciatteria del pensiero e del comportamento, questa corsa al potere per il potere, dove il denaro è tutto.
Come capire che il primo cerchio, quello esclusivo della realizzazione personale, si sta chiudendo ed è tempo di aprirsi al secondo, aumentando i propri gradi di rilevanza?
Ascoltando un tarletto dentro all’anima, che bisbiglia inquieto “E’ poi tutto qui?!” anche a chi è vissuto conquistando, in senso metaforico e reale, alte vette professionali. Che coglie un sottile disagio – se non proprio il tedio di sé – nella ripetizione di quello che già sa fare bene, accanto all’orgoglio, al senso di soddisfazione e di pienezza. Un tarletto che è saggio non lasciare inascoltato.
O il tarletto che ci interroga sul passare del tempo, sull’appannarsi dei giochi della seduzione, sul cambio di orizzonti necessario, per non attardarsi sulle priorità di ieri.
Come possiamo dare un’impennata di senso ai nostri giorni, cosa potremmo intensificare? Cosa potremmo cambiare? Dove, in che modo possiamo mettere più sapore, più luce, più colori, più musica, più profumo, più significato?
Una piccola autoindagine può aiutarci: recuperando, nel film della nostra vita, i momenti che ci hanno fatto sentire davvero vivi: le emozioni, le persone, i giorni che ci hanno fatto toccare nella gioia – e anche nel dolore – il senso di essere protagonisti e non spettatori del film della nostra vita.
Bisogna ripartire da lì, da quelle intuizioni, da quelli spiragli di luce aperti nel grigio, per riprendere il filo e il valore dell’intensità. Senza arrendersi alla routine, alla frenesia del quotidiano, alla palude dei gesti ripetuti.
Sì, è faticoso. Sì, ci vuole un sacco di energia per non arrendersi al noto. Ma l’inerzia è peggio e, alla fine, la sensazione di non aver vissuto bene anche la seconda e ultima stagione, sarà il peggiore dei biglietti d’addio, il senso dell’incompiutezza, dell’opportunità sprecata.

L'attenzione al cassetto dei sogni e a quello dei rimpianti

Mi piace pensare che dentro al cuore abbiamo due cassetti: quello dei sogni e quello dei rimpianti. Con la maturità, quando gli astratti e concretissimi furori della giovinezza sono un po’ placati, è saggio guardare questi cassetti ogni mattina: e cercare che quello dei sogni sia ancora luminoso e pieno, e abbia almeno qualche colorata sorpresa che ci attende. E che quello dei rimpianti sia vuoto.
La capacità di sognare – nel senso di avere progetti grandi – è genetica, a quanto pare. E si rinnova, con la caparbietà dei geni, anche quando gli eventi avversi indurrebbero a più tristi considerazioni. Per altri, il vuoto diventa il perno di una vita che gira attorno al tarlo dell’assenza: di progetti, di speranze, di orizzonti da scoprire, di sfide da accettare, di amore da cogliere e da dare.
Oggi quest’assenza la chiamiamo depressione. Per curarla davvero, tuttavia, i farmaci, pure preziosi, non bastano. Bisogna tornare a riempire, pian piano, il cassetto dei sogni. Con i farmaci da soli si sta forse meno male, ma senza sogni il cuore non sorride.
Richiede disciplina, dicevo, guardare quei cassetti tutti i giorni. Eppure è necessario farlo, per vivere intensamente sì, ma anche preparati a volare o lasciar volare via. Guardarli entrambi, è il segreto della leggerezza. Che è un po’ l’arte di vivere guardando l’essenziale.
Un Feng-shui dell’anima, si direbbe oggi. E quando è buono l’allenamento quotidiano, allora si può finalmente cercare l’armonia: che è quell’equilibrio, quasi a passo di danza, tra il mondo dei sogni, con le sue malìe, e la capacità di essere se stessi, senza tradirsi sì, ma senza più rimpianti.  
Perché questa disciplina, questo bisogno di tenere leggeri i rimpianti e lievi e alti i sogni? Perché, laici o religiosi, non sappiamo né il giorno né l’ora, né per gli altri, né per noi. Meglio essere pronti. E se la vita sarà lunga, quel vivere leggeri e preparati, ci avrà regalato un passo di danza, per chiudere gli occhi, infine, sereni e in pace. Davvero pacificati.
Quanti tra noi, oggi, leggeri e sereni lo sono già davvero, col cassetto dei rimpianti bello vuoto e quello dei sogni ancora pieno?
E come passare dal furore entusiasta e appassionato della giovinezza a una misura più pacata, ma non per questo meno intensa e meno profonda?

La maturità, tra passione e distacco

"Beato chi abbandona questo mondo, prima ancora che il mondo lo abbandoni": questo, nel 1404, ha fatto scrivere Tamerlano sul Mausoleo Gur-emir, dedicato a un nipote a lui molto caro caduto in guerra, a Samarkanda, mitica città del nostro immaginario, sita in Uzbekistan, ex repubblica sovietica dell’Asia centrale.
Solo chi è veramente grande sa cogliere – anche dentro di sé – il senso di finitezza, di orizzonte concluso, dentro la forza propulsiva e la passione che portano le persone di particolare energia e carisma a conquistare il mondo (in senso reale o metaforico).
Una finitezza complessa: qui mi voglio soffermare su un aspetto particolare.
La riflessione di Tamerlano, che è in linea con il pensiero più profondo di altre culture, dal “panta rei” (tutto scorre) eracliteo al “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (vanità delle vanità, tutto è vanità) di biblica memoria, contiene tuttavia una prospettiva peculiare: la consapevolezza del protagonista, che attivamente sceglie il momento della chiusura, invece di subirla.
E’ da intendersi come un ritirarsi dal mondo, abbandonando impegni e affetti, prima che il tempo delle cose si chiuda? Non necessariamente.
Mi sembra – o mi piace pensare – che ci sia un suggerimento più sottile. Un invito a tenere, anche dentro la più intensa delle passioni – di conquistare, di amare, di perseguire un progetto o realizzare un sogno – una capacità di distacco.
Intendo: di porre le cose in prospettiva, di porre una distanza che ci consenta di lasciarle andare, per un giorno o per il resto della vita, se il loro tempo è compiuto.
Tamerlano ha continuato a conquistare e vincere, dopo il 1404. Ma quella sua riflessione, che ha attraversato i secoli e ancora ci colpisce, come un testamento spirituale più duraturo delle sue effimere conquiste, suggerisce un esercizio mentale, una disciplina dello spirito: l’allenamento a guardare le cose amandole ma senza aggrapparvisi come se fossero l’unica ragione di vita, a vivere con il massimo di intensità e di impegno, ma al tempo stesso con il senso del tempo e della caducità ultima delle umane cose. La giusta misura con cui guardare alle fasi della nostra vita.
La passione civile si colloca in questo senso del tempo e del nostro essere effimeri, sì, ma densi di significato, se sapremo essere eticamente incisivi sul nostro mondo, al di là del protagonismo fine a se stesso.
Per questo bisogna vivere ogni giorno come se fosse davvero l’ultimo, non nel senso del nichilismo che si arrende prima di iniziare, bensì nel monito a vivere ogni attimo, con i suoi affetti e i suoi progetti, con la massima intensità e qualità, perché questo tempo non torna, e insieme con la saggezza di lasciarlo andare, perché nell’averlo vissuto al nostro meglio c’è la pacificazione con la nostra finitezza e gli abbandoni del mondo.

I nuovi orizzonti di passione civile

In quale ambito possiamo esprimere il nostro sogno nel cassetto di avere più significato, più senso, di incidere di più nel mondo che ci circonda?
In che modo possiamo essere generosi, di noi, di quello che abbiamo appreso dalla vita, ma anche di entusiasmo, di passione, di slancio etico, di voglia di migliorare questo mondo alla deriva, sempre più sporco, cinico, sciatto, sempre più povero soprattutto di ideali e di sogni, ma anche di cultura e di possibilità reali per i più giovani?
Le direzioni sono molteplici. Il professor Veronesi, che ha dedicato tutta la sua esistenza a migliorare la qualità della vita e la possibilità di speranza e di futuro delle donne colpite da tumore al seno, ha voluto, in parallelo, sostenere altre idee, altri percorsi di salute. Ha voluto incidere sul nostro tempo, e sulla nostra società, impegnandosi per promuovere altri aspetti dello stile di vita, per agire pragmaticamente a livello di prevenzione della malattia.
Qui c’è un punto importante: non ha senso parlare di aspettativa di vita. Ma di aspettativa di salute. E purtroppo nel mondo occidentale esiste una crescente differenza tra queste due età – anni di vita e anni di salute. Questo significa che viviamo più a lungo, sì, ma con più anni di malattia, di dipendenza, di degrado fisico e psichico, di solitudine e di amarezza.
Impegnarsi per diffondere una maggiore cultura della prevenzione significa non solo esprimere amore per la vita, ma agire pragmaticamente per aumentare l’aspettativa di salute.
Eliminare il fumo è uno dei pilastri di questo progetto.
Eliminarlo, idealmente, dalla vita delle donne significa superare anche l’idea che parità, o emancipazione, significhi imitare l’autodistruttività che percorre il mondo di molti uomini.
Altri fronti ci attendono, per ciascuna secondo la propria sensibilità, la propria storia personale, i sogni che ha nel cassetto, e gli ideali sui quali oggi ciascuna di noi vuole investire: l’adozione più rapida, una scuola di maggiore qualità, una migliore educazione delle giovani generazioni, oggi allo sbando, una maggiore cura delle nostre città, degradate e sporche e imbrattate, una migliore assistenza agli anziani e ai malati. 
Il mio impegno personale, come donna, e come ginecologa e oncologa, è sul fronte del dolore: fisico e psichico. Perché si smetta di dire alle donne che il dolore è tutto nella loro testa. Perché si ascolti il loro dolore, lo si diagnostichi nella sua complessità, biologica, psichica e relazionale, e si diano risposte terapeutiche adeguate, pragmaticamente adeguate.
Per questo ho anche scritto il mio ultimo libro, “Il dolore segreto” (Mondadori). Perché comprendere la neurobiologia che sottende l’esperienza del dolore significa aumentare la possibilità delle donne di difendersi dal dolore. E di difendere dal dolore anche le persone che amano.
A tutte noi – che abbiamo assistito impotenti persone care, familiari e amici tormentati dal dolore del cancro, di un trauma, di un danno neurologico, di un enfisema che non fa respirare e ogni respiro lascia una fame d’aria uguale all’annegare, o sofferenti per il dolore banalizzato dell’artrosi, o dell’osteoporosi che incrina le ossa – è chiaro per vita quanto ancora si possa e di debba fare sul fronte della cura del dolore.
E della cultura del dolore, che è doveroso diffondere, con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, gli analgesici farmacologici e la nostra generosità di affetto, che è il più potente analgesico dell’anima.
Ieri, da una giovane paziente che ha ritrovato il piacere dell’intimità dopo un lungo percorso di dolore, dopo una chirurgia radicale per tumore del collo dell’utero e una pesante radioterapia, ho ricevuto un mazzolino di mughetti selvatici, raccolti da lei sulle montagne dell’Agordino. Un mazzolino che idealmente mi piacere condividere con voi: per la grazia gentile, per il suo amore per l’ombra e la discrezione, per il suo profumo e, come ha scritto la mia paziente sul bigliettino, per il significato: "Felicità che ritorna".

Conclusioni

Nell’essere generosi di noi, ora che la maturità ci consente di vivere con passione e distacco, c’è una possibilità di felicità diversa, più interiore, meno eclatante. 
Spero di aver dato voce a un sentimento comune: davvero, nel percorso di una vita, fermarsi alla realizzazione personale è come fermarsi a metà del guado. Perché nell’altra metà sta il grado di rilevanza, il significato che una persona raggiunge nel proprio mondo.
Un significato affettivo, familiare, professionale, etico, spirituale. Chi ha perseguito una realizzazione personale vera, non conformista ed etica, tende a perseguire una rilevanza spirituale, non necessariamente confessionale, indipendentemente dall’ambito di eccellenza raggiunto.
Lì si misura la sua generosità: di sé, di energie, di incoraggiamento, di affetto, di stimoli. Chi sa essere generoso sa che nel percorso della vita, in cui tutti diventeremo polvere e ombra, l’unica traccia indelebile di sé che merita lasciare sarà la traccia etica.
Un segno di bellezza e di eccellenza, nell’arte come nella vita.
Il nostro impegno civile ne darà testimonianza.
Questa alimenterà altre scintille di vita, e la passione di essere se stessi, dentro il cuore e l’anima delle generazioni più giovani.

Parole chiave:
Autorealizzazione Etica e bioetica Ideali e valori Rapporto medico-paziente

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