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Rischio ostetrico e parti sicuri: l'importanza della struttura di assistenza

27/09/2010

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

E adesso dove vado a partorire? I recenti episodi di parti drammatici, con esiti gravissimi e irrimediabili, hanno gettato il panico tra le donne e le famiglie italiane in cui si aspetta un bambino. Panico comprensibile, che può essere ridotto da una più pacata analisi di quanto è avvenuto, con tre obiettivi: analizzare la realtà italiana con solidità di dati scientifici e clinici; comprendere la natura del “rischio ostetrico”; e distinguere i problemi gravi che possono insorgere nelle gravidanze obiettivamente ad alto rischio dagli errori evitabili e non difendibili dovuti a negligenza, imperizia e imprudenza del medico. Solo così l’opinione pubblica può maturare una visione equilibrata della nostra realtà ostetrica. Vediamo oggi il primo punto.
La ricerca condotta dal dottor Christopher Murray dell’Institute for Health Metrics and Evaluation, e pubblicata quest’anno sulla rivista The Lancet, la più autorevole in ambito medico, indica che l’Italia è il Paese più sicuro al mondo in cui partorire. Con una percentuale di 3,9 decessi ogni 100 mila nati, è ultima nella classifica della mortalità durante la gravidanza e il parto, con dati valutati fino a 42 giorni dopo il parto. Perché la donna può morire? Per emorragia massiva con shock emorragico, per crisi ipertensiva, per embolia polmonare, coagulazione intravascolare disseminata, setticemia... Al secondo posto c’è la Svezia, mentre al terzo si trovano Lussemburgo e Australia. Il dato peggiore è dell’Afghanistan, con 1575 donne morte/100.000 nati e dell’Africa Centrale (1570/100.000).
Il dato obiettivo nazionale è fortunatamente molto diverso dalla percezione che se ne è avuta in questi giorni. Inoltre, l’ultimo rapporto sulle nascite in Italia realizzato dal Ministero della Salute rileva la preferenza per le strutture pubbliche, che nell’ostetricia offrono in genere standard di assistenza migliori rispetto alle private: solo poco più di un parto su 10 (l’11,6%) avviene nelle case di cura e lo 0,1% a domicilio. Ed ecco il problema delle strutture troppo piccole, non adeguate, in caso di parti difficili o di emergenze (diceva un collega: “La sala parto è fatta da ore di noia mortale intervallate da minuti di puro terrore"). Un parto su 10 avviene in luoghi che accolgono meno di 500 nascite l’anno, inferiore al tetto indicato negli standard di sicurezza previsti in un decreto del 2000. I centri più grandi sono presenti soprattutto al nord. In Val d’Aosta, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte oltre l’87% dei parti si svolge in punti nascita di grandi dimensioni, con almeno mille nascite l’anno. Elevato numero di parti significa avere all’interno dell’ospedale, e quindi immediatamente disponibili per ogni emergenza, il ginecologo, l’anestesista e il neonatologo, oltre a strutture di rianimazione più qualificate per curare tempestivamente mamma e bambino. Ecco perché è saggio chiudere le piccole unità parto, al di là di campanilismi che non considerano che l’emergenza, in ostetricia, è davvero questione di pochissimi minuti. Perché un medico “reperibile” su chiamata (ossia che non è fisicamente in ospedale, perché nei piccoli ospedali non c’è abbastanza personale per coprire tutti i turni interni) non ha materialmente il tempo di arrivare.
Certo, anche la rete dell’ostetricia in Italia funziona a macchia di leopardo: ed è la qualità dei medici, delle ostetriche, delle infermiere del singolo reparto, che fa la differenza. Complessivamente, la realtà ostetrica italiana risulta essere tra le migliori del mondo, anche se molto perfettibile, soprattutto sul fronte della umanizzazione dei punti nascita, e la riduzione della morbilità, ossia delle patologie che non causano la morte ma che possono ledere salute e qualità di vita di mamma e neonato.
In pratica, è quindi molto meglio rivolgersi all’ospedale pubblico, con maggior numero di parti, e farsi seguire da un ginecologo particolarmente dedito all’ostetricia, perché anche la qualità del monitoraggio prima e durante la gravidanza, e durante il parto, fa la differenza (in Francia hanno già separato la carriera del ginecologo da quella dell’ostetrico). Tanto meglio se la qualità è condivisa con ostetriche e infermiere.
Il futuro dovrà essere l’accreditamento, processo in cui periodicamente verrà valutato per ogni ospedale non solo il numero e il tipo dei parti (per via vaginale o con taglio cesareo), ma il livello di assistenza, basato sia su dati obiettivi rigorosi di mortalità e morbilità materna e neonatale, sia sul dato “soggettivo” della soddisfazione che la donna ha avuto o meno rispetto alla qualità dell’assistenza, medica e umana, nel partorire in quell’ospedale. Fino a certificazioni di eccellenza, che consentano alla donna di partorire bene, serena e in salute, e ai medici di lavorare in scienza e coscienza, con soddisfazione e nel pieno rispetto della discrezionalità del proprio agire.
Tuttavia, in questo ambizioso progetto c’è una vulnerabilità intrinseca: non esistono gravidanze “senza rischi”, ma gravidanze a basso, medio e alto rischio ostetrico. E qui c’è il secondo, importantissimo punto: il livello di rischio ostetrico può condizionare l’esito del parto in modo determinante, a parità di assistenza. Può la donna ridurre il proprio rischio ostetrico? Sì, in parte: ne parliamo lunedì!

Parto vaginale / Parto cesareo Rapporto medico-paziente Rischi ostetrici e fetali

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