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L'amore nutre la vita anche nella malattia

15/01/2010

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Gentile Professoressa, leggo spesso sul suo sito lettere e testimonianze di dolore e disperazione. Così ho pensato di scriverle, perché la mia esperienza pur difficile mi ha insegnato che la sofferenza interiore può essere superata, e che la vita, nel senso più pieno e autentico del termine, può avere la meglio sul male. Ho 45 anni, sono professore di letteratura greca antica, e vivo con una donna che amo profondamente. La nostra vita procedeva con linearità, e il futuro sembrava riservarci solo cose buone. Un anno fa, invece, ho scoperto di avere un tumore. Sono stato operato, e su consiglio dell’oncologo ho fatto anche due cicli di chemioterapia adiuvante. Adesso sto meglio, forse sono persino guarito, ma non è dell’oggi che voglio parlarle. Sono stati proprio i mesi difficili delle cure, e dell’incertezza legata al loro esito, a insegnarmi qualcosa di nuovo e diverso rispetto alle certezze di un tempo. Ho conosciuto sotto una luce nuova l’amore della mia compagna, immensamente preoccupata per me, e immensamente forte e determinata nell’accompagnare i miei passi. Ho ampliato e approfondito la varietà delle mie letture, nei lunghi giorni di forzata convalescenza. Ho preso confidenza con un ritmo del tempo diverso, meno frenetico e tirannico. Ho persino scoperto di avere un buon rapporto con Dio, che non ho considerato responsabile della sorte toccatami, né blandito con promesse puerili del tipo «Se guarisco, farò questo o quest’altro...»: niente di tutto ciò, solo il senso di una presenza non meno misteriosa e problematica del solito (non ho, come si suole dire, il “dono” di una fede ingenua e acritica), ma capace di trasmettermi la sensazione che l’essenziale della vita, anche in quei momenti difficili, stesse a un livello più profondo della malattia, e che non potesse in alcun modo esserne minacciato. Ho capito, insomma, che malattia e felicità possono convivere e che, se è vero che la malattia in sé è sempre un dramma, potevo essere qualcosa di diverso e di più grande di un semplice “ammalato”. Scusi se mi sono dilungato, ma spero proprio che la mia testimonianza possa aiutare altre persone a trovare gli stessi stimoli nei momenti terribili della diagnosi e delle terapie”.
Augusto T.
Gentilissimo professore, la sua testimonianza è preziosa, e mi fa molto piacere iniziare il nuovo anno con un messaggio di speranza per tutti. In effetti, anche nel mio lavoro di ginecologa-oncologa ho visto spesso che, con coraggio e la giusta determinazione, è possibile superare le difficoltà e le sofferenze causate da un tumore. E che, nonostante la malattia, si può arrivare a un più alto livello di consapevolezza, e persino di felicità, grazie all’amicizia e all’amore di chi ci sta accanto, alle molteplici suggestioni della cultura, agli esiti di una ricerca spirituale umile e intelligente. Un uomo del nostro tempo, Enzo Bianchi, afferma che la malattia e il dolore, in sé, non sono mai positivi e salvifici, perché rappresentano la negazione più radicale e scandalosa della nostra aspirazione a una vita piena di significato. Ma aggiunge che se, pur nella malattia, noi continuiamo ad amare e ad accettare di essere amati, allora anche la sofferenza può diventare un’occasione di crescita umana e di speranza per il domani. Credo che la sua storia esemplifichi in modo molto limpido questa verità, perché in questi mesi lei altro non ha fatto che continuare ad amare – la sua compagna, i suoi libri, i momenti di ricerca e verità su di sé e sul senso della sua vita, il Dio in cui crede – e ad accogliere con apertura di cuore l’amore e la bellezza che sentiva provenire da loro.

Felicità e malattia dunque non sono incompatibili?

No, se per “felicità” si intende la capacità di trovare un significato, un senso compiuto alla propria vita. Come ho già ricordato in altre occasioni, lo suggerisce bene anche la radice della parola “felicità”, che lei certamente conosce: nell’etimologia latina, infatti, “felix” è associato a “fecundus”, che a sua volta significa “fertile”. In senso profondo, allora, la malattia può contribuire a far crescere in noi un atteggiamento interiore che renda ancora possibile la felicità... Però, lo ripeto perché è un punto cruciale, sempre ricordando che non è la malattia in sé che rende felici, o dà senso alla nostra vita (questa è un’assurdità che offende l’ammalato), ma lo spirito con cui la attraversiamo e la nostra capacità di continuare a dire sì – laici o credenti che siamo – all’amore dato e ricevuto.

La malattia può insegnarci qualcosa anche rispetto alle realtà più semplici della vita quotidiana?

Certamente sì. Il filosofo Karl Jasper ha scritto a questo proposito che «la malattia risveglia dalle cose ovvie, altrimenti indiscusse» (K. Jaspers, Volontà e destino, Il Melangolo 1999). E risvegliarsi dalle “cose ovvie” significa, per esempio, riassaporare un sonno ristoratore, la possibilità di camminare da soli, l’abbraccio della persona amata, una giornata di sole all’aria aperta. La malattia, in altre parole, può farci capire che nella vita non c’è nulla di garantito e scontato, e che ogni dettaglio delle nostre giornate merita rispetto e stupore. Tutto questo, naturalmente, è possibile solo se le terapie consentono di mantenere il dolore fisico a livelli sopportabili: altrimenti il malato è completamente devastato dalla sofferenza, e noi facciamo solo della filosofia avulsa dalla sua tragica situazione.

Che cosa si può fare sul piano biologico, per potenziare i risultati del cammino esistenziale?

La dimensione biologica è fondamentale per il recupero delle energie. Come medico credo fortemente all’importanza dei farmaci, ma non solo. Nei casi più complessi e dolorosi, alle mie pazienti consiglio:
- i modulatori dell’umore che, pur non modificando o annullando i problemi, aumentano la nostra capacità di affrontarli in modo costruttivo e positivo. Gli inibitori del re-uptake della serotonina, in particolare, sono antidepressivi di ultima generazione molto potenti e “maneggevoli”, ossia efficaci anche a dosi minime;
- gli integratori, che l’organismo utilizza per ritrovare le forze e “riarmare” il sistema immunitario provato dalla malattia e dalle cure. Rientrano in questa categoria gli aminoacidi, come la adeno-metionina e la carnitina; i sali minerali, come il magnesio; e le vitamine, utilissime soprattutto quando l’alimentazione sia stata ridotta per gli effetti negativi di chemio o radioterapia;
- il movimento fisico regolare, possibilmente all’aria aperta, per ridare tonicità al corpo e scaricare in modo sano le tensioni negative;
- una psicoterapia, anche breve, quando si abbia bisogno di dare “parole” al dolore, alleggerire il cuore e tornare finalmente a sorridere.

Vorrei fare qualcosa di concreto per aiutare chi come me sia stato colpito da un tumore. Lei che cosa mi consiglia?

Può fare del volontariato, ad esempio nelle strutture di cure palliative per malati terminali, oggi per fortuna sempre più diffuse anche nel nostro Paese. E non si stupisca che io le parli di situazioni “terminali”: anche chi non può più lottare sul piano terapeutico, può intraprendere un cammino simile al suo, in particolare per pacificarsi rispetto ai molteplici “distacchi” che l’epilogo della malattia renderà inevitabili. Oppure, vista la sua competenza in ambito letterario, potrebbe scrivere su riviste e siti specializzati, rendendo la sua esperienza disponibile a un pubblico molto vasto.
Mi permetto però di ricordarle una cosa che lei – avendo patito in prima persona – ha certamente ben presente: nessuno può “insegnare” agli altri come affrontare la malattia e la morte, ognuno al massimo può parlare per sé, e in ogni caso con molta umiltà. Non è detto che ciò che ha funzionato con noi vada bene per tutti, e al malato vanno comunque consentite anche la ribellione, la rabbia, la disperazione. Come ci insegna l’amara storia di Giobbe, il confine fra la testimonianza, sempre utile e legittima, e la “lezione”, sia pure impartita con le migliori intenzioni, è molto sottile e non dovrebbe mai essere superato, se si vuole che la propria storia diventi feconda di speranza anche per gli altri. Con questo auspicio conclusivo, la ringrazio per averci scritto e le auguro un futuro luminoso.

Amore e relazioni affettive Felicità Malattia

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