EN

La grande attesa

17/12/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Vivere l'Avvento significa saper aspettare. Attendere è un'arte che il nostro tempo impaziente ha dimenticato. Dobbiamo attendere le cose più grandi e profonde del mondo, e questo non si può fare nel tumulto, ma secondo le leggi divine del germogliare, del crescere e del divenire”. Questo scrisse Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico tedesco, ucciso dai nazisti a 39 anni, il 9 aprile 1945, pochi giorni prima della resa della Germania.
L’attesa è fondante. Conserva un valore ancora più alto quando sa mantenere la sua forza e la sua limpidezza di sguardo sul futuro anche nei giorni drammatici – di prigionia o malattia – che anticipano la morte.
Quali sono gli ingredienti di un’attesa che sia alleata del nostro bisogno di significato e della nostra felicità? E ha senso parlare ancora di attesa nel nostro “tempo impaziente”, come ben dice Bonhoeffer?
Dipende dalla qualità dell’attesa, innanzitutto. Esistono nella nostra vita, tristemente esasperata, infinite piccole e medie attese che ci snervano, ci irritano, ci rendono furibondi: le attese in coda ormai ovunque, ma soprattutto in auto, negli aereoporti e negli uffici pubblici. Quelle attese non hanno alcun valore positivo. Anzi, ci fanno ammalare: per le ondate di adrenalina che ci provocano, per le strizzate alle coronarie, i picchi di ipertensione, le tensioni muscolari e le gastriti che ci fanno venire. Per l’irritazione, la collera, la rabbia, la frustrazione. Per il furto di tempo e di vita. Per la follìa generale, che ci fa sentire trottole concitate in corsa perpetua, estraniate da sé, derubate di fatto di un’esistenza degna del nome. Marionette in un tumulto del fare che è l’opposto della grande attesa, alleata di un progetto appagante di realizzazione, di compimento di una storia e di un destino. Non solo nel senso individuale, ma ancor meglio se al servizio degli altri e del mondo. Vite positive, vite luminose, che sanno stagliarsi intense e chiare in questo sfondo oscuro, cinico e annichilito, di crescente entropia di valori e sentimenti.
L’attesa sana, la grande attesa, che ci è amica e alleata, fugge dal tumulto. Lo teme, e molto, come ospite inquietante, come nemico insidioso, come veleno pervadente che le toglie linfa e respiro.
Ad-tendere: distendersi, volgersi verso un obiettivo, mirare, aspirare. Nell’étimo, la potenza della concentrazione, del respiro lento e profondo, prima dell’azione. Dedicarsi a qualcosa, silenziosi e quieti esteriormente, fermi e pacati, ma vigili, concentrati e assorti nel cuore e nell’anima. Dedicarsi, sul tempo lungo, consapevoli che nessuna grande impresa – incluso l’essere compiutamente se stessi, impresa grandissima – si realizza d’improvviso o per magìa. La compiuta realizzazione di sé, come persona, e dei propri sogni, come proiezione di sé nel futuro, richiede quest’arte antica dell’attesa.
Saper aspettare, in una gestazione assorta di pensieri, di riflessioni, di emozioni, di progetti, in una preparazione attenta e consapevole, resta uno dei momenti più alti dell’essere uomo, del farsi uomo, nel senso grande e compiuto. Non automi, non zombie, non ombre di sé, come se ne vedono migliaia intorno, specie – e purtroppo – tra i giovani, ma uomini e donne nella pienezza della realizzazione di sé. L’attesa è un’alleata potente dell’arte del vivere, secondo gli insegnamenti dei Greci, che avevano colto l’essenziale della felicità (eu-daimonìa): riconoscere le proprie capacità (quell’antico “conosci te stesso”) e coltivarle ed esprimerle secondo misura. Con grande senso del tempo necessario al compimento.
Riscoprire l’attesa dunque, facendo tesoro, anche da laici, del tempo d’Avvento. Facendo tesoro dell’esempio della stagione, in cui tutto entra in una fase di apparente riposo e gestazione silenziosa, per rifiorire a primavera. Prendiamoci un tempo di attesa: non per fare, ma per meditare, per ascoltare il silenzio, per ritrovare il sentiero di vita che ci rende (più) felici e che nella concitazione abbiamo perduto. L’attesa ci aiuta a scegliere, a cambiare, a lasciare quelle parti di noi che ormai sono compiute, che ci vanno strette o addirittura ci immobilizzano, e che continuiamo a portarci addosso, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. A lasciare anche ritmi furiosi, molto “produttivi” di cose, ma che intanto – forse – ci hanno fatto perdere noi stessi.
In questi giorni in cui il nostro tempo è ancora più impaziente, corroso da ritmi frenetici a caccia di doni, di idee, tra cene e feste e parenti, prendiamoci una pausa. Ripensiamoci in un’attesa grande, che ci riapra orizzonti degni. Un regalo invisibile ed essenziale, il migliore.

Capacità di attesa Riflessioni di vita

Iscriviti alla newsletter

Rimani aggiornato su questo e altri temi di salute e benessere con la nostra newsletter quindicinale

Iscriviti alla newsletter