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La banalizzazione del male

19/11/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“La maggior parte degli assassini non sa, al mattino, che ucciderà quella sera”. Questo sosteneva Albert Camus nel suo saggio “Riflessioni sulla pena di morte”. Il senso profondo è che, tranne i casi di evidente premeditazione, la maggior parte degli omicidi “nasce” da un impulso omicida non controllato. Dall’esasperazione dell’aggressività, con pulsioni di morte fino a poche ore prima non considerate né temute. Questa dinamica sembra essere in gioco in una serie di omicidi condotti da giovani su coetanei o coetanee, in Italia come in Francia e in altri Paesi d’Europa. Il caso di Meredith Kercher, a Perugia, o di Olivier Mugnier, a Parigi, sono solo gli ultimi episodi di assassini in contesti “inattesi”. Non si tratta di situazioni d’emergenza, di violenza o di rapina. No. L’omicidio nasce, improvviso, in un contesto di normale quotidianità studentesca.
L’apparente casualità di questi assassini, in realtà, mostra dei fattori predisponenti al male, a torto banalizzati. Fattori che, quando sfuggono di mano, possono trasformare giovani considerati normali in assassini, e vite tranquille in tragedie. Irrimediabili, per chi è stato ucciso, devastanti, per chi ha ucciso, o concorso ad uccidere.
Quali fattori possono dunque predisporre un ragazzo, o una ragazza, ritenuti “normali”, ad uccidere?
Innanzitutto, la banalizzazione del senso etico della vita, per il diffondersi di una morale narcisistica, in cui tutto il comportamento è orientato all’unico obiettivo del piacere e della gratificazione immediata personale. Senza alcuna attenzione o preoccupazione al male – diretto o indiretto – che potrebbe causare ad altri. Una ricerca edonistica illimitata e urgente, concentrata sul “qui e ora”. Non nel senso saggio del saper vivere il presente, ma nella frammentazione esistenziale per cui si vive un tempo sincopato, minuto per minuto. Un tempo che non sa più porsi obiettivi di lungo respiro, progetti degni del nome, ma si barcamena in un’altrettanto illimitata inconcludenza. Molti degli abbandoni dell’iter di studi universitario nascono proprio da questa incapacità di porsi un obiettivo e perseguirlo, sapendo vivere il tempo non solo nel presente ma con una solida progettazione sul futuro. Una ricerca del piacere forte, che viaggia sulla deriva contemporanea delle norme, fino a perdersi in un sesso coatto e promiscuo.
La banalizzazione della sessualità che ne consegue si declina anch’essa in diversi profili di rischio. Da un lato, con un uso strumentale del corpo anche per avere una semplice ricarica del cellulare, o la soddisfazione del gusto esibizionista di farsi riprendere con il telefonino. Dall’altro, con un’aggressività sessuale improvvisa ed esplosiva che può arrivare ad uccidere.
Molti giovani – universitari e non - vivono con distacco il passare del tempo, come se fosse eterno. “Distaccàti”, da sé e dalla propria responsabilità verso lo studio e verso il futuro, ancor più se fanno uso di droghe che alterano lo stato di coscienza, fino a renderli “confusi”.
La banalizzazione dell’uso delle droghe cosiddette leggere, cannabis in testa, ma anche dell’alcool, rientra nei fattori gravi di vulnerabilità, perché attenua il giudizio critico su di sé e sulle situazioni, e rende insufficiente la capacità di opporsi ad atti violenti decisi da altri, o da stessi. Ancor più se i ragazzi vivono per ragioni di studio lontano da casa, all’università, dove vegetano in una libertà totale – di tempo ed azioni – che spesso non sanno gestire. Finendo alla deriva in giornate lunghe e inconcludenti, alla ricerca di un sesso gratificante, e di emozioni forti.
Questo processo di banalizzazione complessa, e di perdita di un senso sano di sé, si associa ad un altro fattore di rischio di crescente rilevanza tra i nostri giovani. Infatti, sia per la distorsione percettiva data dalla lunga frequentazione di TV e Internet, e della violenza spettacolarizzata che vi abita, sia per l’abitudine a muoversi come se la vita fosse il set di un film, molti di questi ragazzi, anche per l’effetto di stupefacenti, tendono a fare da spettatori a se stessi. “Sdoppiandosi”, possono compiere atti efferati, uccidere accanendosi sulla vittima, amante o amica che sia, e continuare a comportarsi come se nulla fosse successo, come se l’assassinio compiuto fosse la scena di un film o un cartoon, che li lascia immemori e indifferenti.
Fino a filmare ridendo la morte di una compagna di scuola sotto un autobus, come è successo a Modena. Di nuovo senza alcuna empatia per il suo dolore, senza correre in suo soccorso, senza commuoversi. Sadici e crudeli, esaltati solo dal poter riprendere una morte vera in diretta, per riproporla sul web.
In questa banalizzazione della vita e del dolore degli altri, emerge un sostanziale analfabetismo emotivo. La banalizzazione del male comincia troppo spesso in famiglia. Pesa la mancanza di un’educazione al sentire le emozioni altrui, a pensare, a modulare i propri impulsi, ad avere un’etica della vita non consumistica e non esasperatamente orientata al piacere. E può diventare mortifera un’aggressività che non sa più frenarsi, o che viene esasperata proprio dall’uso di alcool e droghe.
Nell’antica dialettica tra “induttore del sintomo” e “portatore” del medesimo, è poi il/la partner più docile e fragile l’ispiratore misterioso, e la vittima poi, di crimini violenti fino all’omicidio.
Ai genitori, agli insegnanti, agli educatori, resta un compito arduo, ma ineludibile. Fare anzitutto una sana autocritica sul proprio approccio alla vita. E (ri)sintonizzarsi – con fatica e con dolore – su quell’estraneo chiamato figlio. Fin da piccolo. Cercare di (ri)coinvolgerlo in un progetto di vita degno del nome, senza arrendersi alle sue bugie, alle sue inconcludenze, alle sue aggressività pretestuose. Proibire con coerenza e severità l’uso di droghe, anche cosiddette leggere. Ridare le regole sulle ore di sonno e di ritorno a casa. Aiutarlo a rendere di nuovo prioritario lo studio cosicché il ragazzo riscopra il gusto di fare bene il proprio dovere. Oppure, se non vuole più studiare, orientandolo su un lavoro, senza accettare il limbo del vagabondare nullafacente con l’alibi dell’università. L’obiettivo di un giovane, alla fine, non è conseguire un diploma o una laurea, ma esprimere con soddisfazione se stesso, e arricchire la propria conoscenza del mondo con un approccio sano al senso di responsabilità, al senso del dovere, oltre che del diritto al piacere, e al valore preziosissimo della vita. Propria e altrui. Con un aut-aut: che studi seriamente, o che lavori. Non banalizziamo il male o diventeremo complici di questa pervasiva rovina di tanti giovani, alla deriva della vita.

Adolescenti e giovani Educazione Omicidio / Femminicidio / Infanticidio Riflessioni di vita

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