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Accarezzami, guarirò

03/09/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Accarezzami, maturerò”. Questo era in sintesi il risultato documentato in uno studio controllato, condotto una quindicina d’anni fa, sui bambini molto prematuri. In rapporto al gruppo di controllo, che riceveva le cure tradizionali più sofisticate, il gruppo trattato con le coccole, diciamo così, aveva, accanto allo stesso trattamento medico, una dose “extra” di carezze, fatte da un’infermiera per venti minuti tre volte al giorno. Bene: i bambini accarezzati dentro all’incubatrice mostravano un significativo e più rapido miglioramento di tutti gli indici vitali, i loro polmoncini maturavano prima, consentendo il respiro spontaneo e il distacco del respiratore automatico, e anche gli esiti neurologici erano meno invalidanti.
La solitudine emotiva e affettiva è un problema solo nelle unità di cure intensive neonatali? No, di sicuro. Mi è tornato in mente, questo studio, ascoltando il dramma di molte persone che sono state in rianimazione, e dei loro familiari. Unico il motivo di sofferenza profonda, emotiva ed esistenziale, prima che fisica: la solitudine. Una solitudine atroce e non confortata, con il corpo traforato da tubi e tubicini, e una doppia angoscia: di chi è ricoverato in rianimazione, spesso cosciente ma con poche possibilità di comunicazione e di conforto, e dei familiari, costretti a limitare la loro presenza a una misera ora al giorno. Siamo così sicuri che le ragioni dell’asepsi, ossia della sterilizzazione ottimale delle aree di cura intensiva, e la complessità dei trattamenti giustifichino e compensino questo atroce silenzio affettivo, per giorni e settimane, questa separatezza che spesso è l’anticamera comunque della morte?
Nel paradosso dei nomi e degli etimi, chiamiamo “rianimazione” il luogo e il processo in cui e con cui si cerca di far tornare l’anima, nel senso antico di respiro e di principio vitale, dentro al corpo. Ma può l’anima voler tornare in un corpo reificato, oggetto straniato di cure fredde, privato di carezze, di emozioni, del suono di dolci parole, delle lacrime anche di chi ci ama, ci sta vicino e soffre nel vederci soffrire? Quante volte contro ogni speranza le persone sono tornate a vivere perché si sono sentite chiamate alla vita, letteralmente, dalle persone amate? E in quell’amore hanno trovato la forza, il coraggio, l’energia per chiamare a raccolta anche la più umile cellulina, nello sforzo titanico di superare la malattia e tornare a vivere? Quante guarigioni “inspiegabili” trovano in questa forza interiore riaccesa dall’amore il motivo invisibile e tuttavia potentissimo del ritorno alla vita? Sì, non abbiamo, che io sappia, solidi studi controllati che dimostrino in modo inequivocabile il potere di guarigione dell’amore, delle carezze, della presenza di un familiare, di un amico, accanto al malato. Questa è medicina ”aneddotica”, guardata con sospetto dalla medicina ufficiale. Eppure non possiamo abdicare il valore della presenza, di una carezza, di uno sguardo, solo perché restiamo in attesa di studi controllati. Perché la vita va. E se ne va. E perché c’è un sapere umano, antico e profondo, che viene prima ed è più potente di tutti gli studi controllati. Lo dico comunque da medico che crede nella medicina dell’evidenza occidentale, ma che sa anche la complessità e la difficoltà di disegnare studi capaci di obiettivare l’impalpabilità della forza di un sentimento e di una presenza affettuosa. Nella attuale supertecnologizzazione della medicina, specie in rianimazione, c’è una frattura nell’attenzione ai rapporti affettivi che deve essere con urgenza sanata, indipendentemente dall’esito della cura. Perché è essenziale aver vicino le persone amate anche quando si sta per morire, e si lasciano andare per sempre, ma accompagnati con tenerezza e affetto, tutti gli affanni della vita. Come è essenziale averle vicino quando si può guarire, e la vicinanza, e le carezze, e una parola di sostegno e di incoraggiamento, e la semplice presenza, possono rendere meno amare e meno sole le ore e i giorni delle cure estreme.
E’ urgente il ritorno al senso antico della medicina, di cui parlava Platone. All’intuizione greca. Platone, nel Gorgia, usa per la prima volta la parola “terapia” come “therapèia theòn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei, del divino. Nell’Ippocrate, Platone ritorna sull’argomento e parla della “Therapèia toù sòmatos, tès psychès”, “terapia del corpo e dell’anima”, in cui il medico dovrebbe avere, per il corpo e per l’anima, l’attenzione, la sollecitudine, la cura che merita la scintilla di divino che è in noi. Nella Repubblica, parla di due tipi di medicina: la prima è riservata agli schiavi, ai quali si toglie solo il sintomo perché devono riprendere subito il lavoro; la seconda è per gli uomini liberi, ed è attenta al corpo, all’anima, e ai rapporti familiari. Questo diceva Platone, che mi piace di tanto in tanto ricordare. La medicina contemporanea, così concentrata a uccidere i sintomi, è una medicina da schiavi. E’ la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini liberi, che dovremmo recuperare, insieme alla passione antica di essere medici umani, oltre che scientificamente e tecnologicamente preparati.
In questa carenza di umanità in molte delle nostre rianimazioni, carenza che è culturale e filosofica prima che organizzativa, capisco le ragioni profonde per cui un numero crescente di persone dice: no, niente rianimazione, preferisco morire prima, ma nel mio letto, a casa mia, con i miei intorno, che non solo come un cane, in una camera isolata dove mi sento solo un oggetto, seguito anche benissimo tecnicamente, ma da persone indifferenti.
Tuttavia, quest’ultima scelta ci fa perdere una chance di sopravvivenza che è triste non poter cogliere solo perché il paziente, in ospedale, è oggi un oggetto senz’anima. La terza via, di cui a tratti si parla ma che fatica a diventare realtà stabile – con qualche lodevolissima eccezione – è quella di una rianimazione a misura d’uomo. In cui la presenza di un familiare, di un amico, di un volontario, sia parte essenziale della cura, indipendentemente dalla prognosi. Parafrasando lo studio sui bimbi immaturi: “Accarezzami, guarirò” vale anche per gli adulti e per i nostri vecchi. Per che cos’altro vorremmo tornare a vivere, se non per essere amati, e amare, ancora?

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