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Il fascino perverso dell'aggressività

06/11/2006

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Sono un teppista? Sì! E me ne vanto!”. In Gran Bretagna l’essere etichettato come “Asbo” (“anti social behaviour order”, ossia come persona incriminata per comportamenti antisociali: in breve, il nostro “teppista”) è giudicato come una medaglia al valore da un ragazzo su due, secondo il sondaggio dell’agenzia governativa “Youth Justice Board”, pubblicato nei giorni scorsi a Londra. La campagna di Blair “Duri contro il crimine e duri contro le cause del crimine”, lanciata nel 1999 per ridurre la crescita esponenziale del teppismo tra i giovani, non ha sortito i risultati desiderati, anzi. L’obiettivo dell’Asbo era di contenere il fenomeno del degrado umano e sociale urbano. Per raggiungerlo, i magistrati che giudicano adolescenti e giovani responsabili di atti teppistici possono proibire l’uscita di casa nelle ore notturne e la frequentazione di “luoghi sensibili” ai ragazzi riconosciuti colpevoli, appunto, di comportamenti antisociali come il vandalismo, l’ubriachezza molesta e altri atti teppistici. Sette anni e 8000 Asbo dopo, la Gran Bretagna continua ad avere le strade zeppe di teppisti, con un netto peggioramento sia degli indici di sicurezza sociale sia dei comportamenti antisociali. Al punto paradossale che l’essere stato giudicato secondo l’Asbo (e quindi, in breve, essere un Asbo), è diventata una sorta di “decorazione al merito teppistico”.
Un problema solo inglese? No. In Italia l’unica differenza è l’acronimo: da noi è “Daspo” (“Divieto di accedere a manifestazioni sportive”), norma restrittiva applicata agli ultrà nazionali giudicati colpevoli di atti di vandalismo, o di aggressioni lesive. Siccome, tuttavia, i meccanismi umani sono i medesimi, al di là di possibili differenze culturali, ecco che anche da noi molti Daspo hanno ormai fatto del divieto un medaglia al valore all’interno del loro gruppo di amici e tifosi.
Che l’identità negativa sia oggi la più seducente sirena all’orizzonte dei giovani l’ha colto subito anche la pubblicità. Essere cattivi come status symbol – “Bad girls wear...”, “Bad boys wear...” (le cattive ragazze, i cattivi ragazzi indossano...) – è infatti ora lo slogan di una nota marca di orologi che campeggia su enormi tabelloni pubblicitari anche in Italia, sui muri di diversi aeroporti.
L’identità negativa, in altri termini, sta acquisendo una capacità di attrazione e polarizzazione mai vista prima (come dimostrano anche i videogame in cui bambini e ragazzi possono identificarsi con il delinquente giocando a mettere in scacco e uccidere il poliziotto).
Si dirà che i ragazzi negativi ci sono sempre stati e non c’è niente di nuovo sotto il sole. Tuttavia, la gravità pervadente di questa crisi morale è forse perfino meglio esemplificata da un’altra riflessione che mi capita di sentire sempre più spesso: “Sono considerato un bravo ragazzo e questo mi fa infuriare. Ormai questa è un’etichetta da perdente!”. Da un lato, dunque, il cavalcare l’attuale “deriva delle norme”, come se fosse un fare surf sulle onde, sta diventando uno stile di vita. Dall’altro sono in profonda crisi di identità i ragazzi educati secondo il più antico criterio di interiorizzazione della norma morale, di identificazione con l’altro – e i suoi sentimenti – prima di agire. Percorso interiore che aumenta il senso etico personale e riduce l’aggressività, ma anche i comportamenti in generale scorretti verso gli altri, nel lavoro, in casa, in amore. E che tuttavia viene vissuto come un fattore di riduzione della competizione sociale, su tutti i fronti.
L’equazione “bravo ragazzo uguale perdente” comporta uno sgretolarsi interno, una frattura profonda e insidiosissima delle forze buone del tessuto sociale, che in un certo senso si arrendono a questo cambiamento etico senza nemmeno più contrastarlo, come invece succedeva naturalmente in passato. D’altra parte, con il nostro “fatti furbo/a” usato a ripetizione con i bambini fin dalla culla, non facciamo altro che incoraggiare esattamente questo rovesciamento di valori. E con i nostri comportamenti da furbi li avalliamo.
Un problema solo maschile? No. La crisi dell’ideale dell’Io, del modello di riferimento coinvolge anche le giovani donne. L’identità negativa comincia a far premio anche tra di loro: al punto che comportamenti teppistici, di bullismo, di aggressione verso compagne più timide o meno inquadrate sul modello negativo comincia a diventare socialmente preoccupante non solo nell’ambiente metropolitano ma anche in piccoli paesi italiani.
Nel 1996, con il suo bestseller “La brave ragazze vanno in paradiso. Le cattive dappertutto”, Ute Ehrhardt siglò con questo titolo non solo un libro fortunato, ma l’inizio di un’era. L’elogio della non arrendevolezza, della non sottomissione femminile al di fuori della casa, riuscì ad avere un ascolto epidemico grazie all’uso divertito della spregiudicatezza e dell’ironia. In quel contesto la cattiveria era ancora moderata. Di fatto, il contenuto era un incoraggiamento alla sana affermazione di sé, non dell’egoismo ad oltranza, grazie ad una parodia divertita e critica della ristrettezza di orizzonti delle “brave ragazze”, rispetto a quelle scaltre e spregiudicate. Tuttavia il titolo, più forte del contenuto, divenne una sorta di bandiera per tutte coloro che vedono nella “cattiveria” una vantaggio sociale. In soli dieci anni, l’orizzonte è mutato ulteriormente: e privilegia ora nettamente le “identità negative” anche per molte ragazze. Il loro identikit? Molto simile a quello dei maschi Asbo: fallimenti scolastici, bassa scolarità per abbandono precoce della scuola, basso livello socioeconomico, famiglie sgretolate, fumo, alcool e droghe “leggere”, rapporti precoci. Se l’identità positiva non è più possibile, “meglio un’identità negativa che non avere identità”. Si intrecciano così fattori di fallimento personale, secondo il codice tradizionale, e il bisogno di affermazione comunque all’interno del gruppo degli amici, oggi il più potente fattore di riferimento dei giovani. Questo comporta l’adesione a modelli trasgressivi, che fanno della violazione sistematica della norma un modus vivendi e un criterio di valore all’interno del gruppo, specialmente, ma non solo, di livello socioeconomico più basso.
E’ possibile tornare indietro? Forse: ma è molto difficile, data la deriva dei valori e delle norme in corso in tutte le società ad alto e basso reddito. Per ridurre il fenomeno, prima che gli stessi bravi ragazzi si arrendano del tutto, bisognerebbe agire a monte, non solo sui molti fattori di disgregazione sociale e di fallimento personale dei giovani, ma anche sulla sostanziale corruzione etica degli adulti, soprattutto quelli più visibili, in politica e sui media.
La sensazione è che la maggioranza della popolazione giovane sia ancora moralmente sana, in Italia come in Gran Bretagna. Ma le identità negative, nei comportamenti, nel linguaggio, nei modi, fanno più rumore, hanno più fascino e sono molto più infettive. Non sottovalutiamole. Non facciamone un modello. E non premiamole.

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