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Donne e denaro: tabù e paure

10/04/2006

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Donne e denaro: perché una donna di successo nell’imprenditoria o nelle libere professioni è riservata nel dire quanto guadagna, mentre gli uomini di successo lo esibiscono ai quattro venti?
La ragione è millenaria: per un uomo il reddito è sempre stato un’epifania del suo potere, delle sue capacità, del suo status. Esibirlo – nei possedimenti, nei castelli, nei gioielli, nei cavalli, nell’arte, nelle navi, oggi negli aerei, e perfino in un esercito personale (o almeno in una schiera di guardie del corpo) – era come per un pavone far la ruota. Dire cioè al mondo il proprio rango sociale, e attraverso questo imporre agli inferiori (in reddito e non solo) tutta una serie di regole, dirette e indirette, in base alla quali organizzare letteralmente le dinamiche sociali, incluso in primis il potere politico. Basta una minima conoscenza della storia, anche contemporanea, per capirlo. La donna – almeno la partner ufficiale – veniva scelta in base o allo status e al titolo nobiliare, oppure alla bellezza, che allora doveva essere assoluta.
Per le donne, millenariamente, il denaro, anche redditi immensi, è sempre arrivato “nel nome di un uomo”, e solo attraverso un uomo: padre, specie se figlia unica, marito (qualora fosse rimasta vedova), fratello o figlio, in caso di loro premorienza. I Romani, che nel diritto avevano raggiunto posizioni avanzatissime, e che pure riconoscevano alla donna una notevolissima autonomia amministrativa nei confronti del denaro di casa, avevano tuttavia una cerimonia matrimoniale emblematica: la “manus iniectio”. Il padre poneva la propria mano sul capo della figlia, prendeva poi la mano del futuro genero e la sostituiva alla propria. Con questo sanciva non solo l’importanza di una “protezione” maschile, ma anche di una sottomissione comunque al principio maschile. Millenariamente, la donna ricca è sempre stata oggetto di desiderio da parte dei cacciatori di dote, sui quali in particolare i romanzi d’appendice dell’Ottocento e del Novecento hanno scritto fiumi di parole, segnando ancora più l’immaginario collettivo. Attenzione: dote non solo nel senso di denaro e possedimenti, ma anche come relazioni di potere, come opportunità di “ascesa” sociale, come status. Basti pensare che cosa abbia significato, e significhi, per un giovane ambizioso, sposare la figlia del duca o del principe, del grande imprenditore o dell’onorevole, del barone universitario o del brillante avvocato, soprattutto se il giovane desideri far carriera nello stesso settore.
Nei secoli, la donna perbene – con qualche eccezione regale – è sempre vissuta nel nome e per mezzo di un uomo. Quella che fosse costretta dalla vita o dal destino a guadagnarsi da vivere da sola poteva fare un unico lavoro. La possibilità oggi di fare autonomamente carriere professionali prodigiose, e di ottenere redditi elevatissimi, si scontra dunque con il tabù millenario del dire che una donna guadagna (tanto) in proprio. La parola tabù è appropriata: perché nell’originaria accezione polinesiana (fu introdotta in Europa dal navigatore James Cook, nel 1777) indicava la violazione di una regola (in questo caso il non guadagnare in proprio e comunque il non dire se il reddito è elevato) e la paura del rifiuto sociale a causa della eventuale rivelazione. Storie? Non proprio. La donna che guadagni molto in una professione socialmente rispettata ha paura ed evoca paura. Ha paura di perdere in fascino, in attrattività profonda, in femminilità, a meno che per età non sia oltre questi fantasmi. Ha paura di essere percepita come “un maschio mancato”, nel cervello se non nell’esteriorità. E l’uomo, che pure può apprezzarla anche molto professionalmente, non vuole una “rivale” in casa, o addirittura  una che gli faccia ombra, men che meno sul fronte cui lui è più sensibile, ossia il denaro. E questo perché, anche dentro le mura domestiche, il denaro determina di fatto il potere decisionale. Qualche dato? Negli Stati Uniti il 40 per cento delle donne top manager sono single (ossia sole) contro meno del 5 per cento degli uomini di pari livello professionale. Molte professioniste si comprano gioielli o beni di valore, ma dicono di averli ricevuti in dono dal compagno o dal marito: “suona meglio”. E ho visto coppie – anche di impiegati – andare in crisi perché lei guadagnava 50 o 100 euro al mese più di lui. Nello stesso tempo, le donne di successo professionale temono, rivelando il proprio reddito, di diventare oggetto di aggressioni e di estorsioni, specialmente se vivono sole: paura reale, purtroppo. Non ultimo, temono il feroce pedaggio dell’invidia, maschile e femminile, che proprio sul denaro diventa denigratoria e furiosa.
Esiste ancora una sostanziale asimmetria tra uomini e donne, non solo nei redditi a parità di mansioni, cosa ben nota e trasversale anche nei Paesi cosiddetti avanzati, ma anche nel rapporto nei confronti del denaro guadagnato in proprio. In superficie molte cose sono cambiate, ma le acque profonde dell’inconscio personale e collettivo, che determinano i nostri comportamenti sociali, sono (quasi) immobili. Anche per questo, nonostante tanta emancipazione, il rapporto tra donne e denaro (guadagnato in proprio e per indiscussi talenti e competenza personale) resta ancora circondato da un tabù, in cui abitano inconsce e profonde paure. E da un silenzio scelto, frutto di un’accurata analisi e attente necessità strategiche. La paura del rifiuto, dell’abbandono e della solitudine affettiva, quando le luci scintillanti della ribalta professionale si spengono, la sera. E la necessità di ridurre l’aggressività sociale nei propri confronti per non sprecare inutilmente la propria energia. Soprattutto quando la donna si sia costruita la vita professionale da sola – senza padri potenti o amanti o partiti – tacere sul denaro che guadagna può essere ancora oggi segno di autoprotezione e di saggezza. E di una riservatezza antica che ha nella discrezione una potente alleata.

Autorealizzazione Riflessioni di vita

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