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I giorni amari dopo la strage degli innocenti

17/12/2012

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Io a scuola non ci voglio tornare mai più. Mai più!”. “Bisogna tornare a scuola, tesoro…”. “No, non ci torno. Vuoi che muoia anche io?”. Questo sostiene David, 9 anni, e con lui centinaia di bambini, non solo a Newtown nel Connecticut, ma in tutti gli Stati Uniti.
Come rispondere? Mai era successo che una scuola elementare fosse attaccata in modo così brutale e devastante. Scuole superiori, sì. Mai era avvenuta una strage di bimbi. Veder scorrere i loro nomi sullo schermo della CNN lascia agghiacciati. Tutti tra i 6 e i 7 anni, 12 bambine, 8 maschietti, e 6 insegnanti, tutte donne, inclusa la preside e la psicologa.
Oggi, lunedì, i bambini dovranno tornare a scuola e affrontare la paura guardandola in faccia, parlandone con i genitori e con gli insegnanti. Molti potranno farlo, non tutti. Ci sono bambini più forti, e altri più fragili, che hanno più incertezze, o famiglie meno solide. E bambini più traumatizzati, perché più sensibili, o perché hanno visto e sentito quanto è successo più degli altri: per questo hanno più bisogno di ritrovare la certezza che almeno in casa la base sicura della vita è garantita dalla presenza affettuosa e tenera di adulti che li proteggano. In ogni casa, i genitori dovranno spiegare che il male esiste, e a volte può uccidere anche bambini innocenti. Ma è difficile convincere un bambino giustamente spaventato a tornare in un posto, creduto sicuro, dove sono stati uccisi 20 suoi compagni e 6 insegnanti.
L’America piange. Venerdi all’imbrunire, una guardia è salita sul tetto della Casa Bianca, davanti a una folla ammutolita, dove ciascuno aveva una candela accesa in mano. In modo antico, ha ammainato a mano la bandiera, che sempre sventola alta quando il Presidente è a Washington, lasciandola a mezz’asta. Simbolo di un’America in lutto, sgomenta di fronte ai suoi giovani demoni che imprevedibili le devastano il cuore.
Come leggere un omicidio di massa, iniziato con l’assassinio della madre e finito col suicidio? Quale senso di impotenza, di frustrazione, di fallimento, può portare a progettare nei dettagli un piano così feroce? Quanta autodistruttività, quanta rabbia e quanta voglia di vendetta possono portare a scegliere la propria morte in un bagno di sangue innocente? Quanto grande è il senso di frustrazione per cercare rivalsa nel potere della violenza, nel potere di vita e di morte, nel potere di far piangere all’infinito tutti coloro che sono rimasti privi dei loro figli, delle loro mogli e madri? Non ultimo, quanto rabbia perversa c’è nel gusto finale di uccidersi, in una vita sentita fallita, per sottrarsi alla punizione, se non alla vendetta, dei sopravvissuti? Una rivalsa crudele, irrimediabile, diabolicamente potente nella sua capacità di moltiplicare all’infinito il dolore patito, stroncando vite innocenti e devastando famiglie intere
E’ possibile prevenire queste stragi sempre più frequenti ad opera, quasi sempre, di giovani bianchi? E che cosa dicono, ora, i genitori dei bambini uccisi? Molti ripensano all’ultimo mattino: uno all’ultima battuta del figlio sul football, un altro alla tenerezza di un abbraccio. Un altro ancora al litigio, perché la bambina non voleva andare a scuola (forse per quell’intuizione misteriosa che hanno i piccoli prima dei disastri?) e ora non tornerà più. I segreti del cuore possono dare tormenti infernali. Le parole più commoventi le ha dette il papà della piccola Eileen, 7 anni, trasferito a Newtown da soli 8 mesi (che destino!) per lavorare nell’Unità di cura intensiva pediatrica dell’ospedale: «Eileen, la nostra primogenita, era una bambina adorabile. Aveva sempre una parola gentile e un sorriso per tutti. Io e mia moglie siamo devastati. Ma dobbiamo farci forza per le altre due bambine più piccole che ci sono rimaste. Io credo che questa tragedia debba indurci a essere più generosi, più disponibili ad aiutarci gli uni con gli altri dentro ogni famiglia e ogni comunità, per ridurre la solitudine, la rabbia e il male che le accompagnano (…). Ho sempre più un unico obiettivo, nella vita. Che le mie figlie possano dire, alla fine dei miei giorni: “E’ stato un grande papà”». Sicuramente un papà in cui credere, perché anche nei giorni più duri, sa dare sicurezza e amore. Con uomini così, un Paese può superare ogni difficoltà.

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