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Dopo una diagnosi di cancro: quando si sceglie il silenzio e la solitudine

11/06/2012

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

«Ho 45 anni, una relazione da due anni con un uomo di 52: libero lui, libera io, entrambi senza figli. Una storia molto bella e intensa. Per me unica. In pieno benessere, lui ha avuto una colica addominale violenta. Diagnosi: cancro del colon avanzato. Mi ha invitata a cena e mi ha comunicato la diagnosi, ma anche il suo desiderio: non vederci più. “Ricordami come sono, ricordaci come siamo stati. Ti amo tanto, ma questa faccenda voglio vedermela da solo. Ti prego, non insistere. Abbi cura di te”. Fine. Telefono chiuso. Irraggiungibile. Non so nemmeno dove si farà operare, se farà la chemio prima. Niente. Lo conosco, è un uomo molto determinato. Io non so più cosa fare. Sono disperata al pensiero che sia solo. Al tempo stesso mi sento rifiutata. Perché fa così? E io, cosa posso fare per lui?».
La donna è davvero disperata. Lui ha le sue ragioni, che personalmente capisco molto bene. C’è chi, con un tumore, ha bisogno dell’affetto delle persone amate, ancora più di prima, e chi preferisce “compattarsi” in solitudine. Tace, prende ferie e si fa operare in un’altra città. Preferisce parlare poco, con i medici, e solo dell’essenziale delle cure, e poi riflettere. Perché si può scegliere il silenzio e la solitudine? Per confrontarsi con il demone che ti divora dentro, e lo ha già fatto per mesi o anni, senza che te ne accorgessi: perché è stato insidioso e subdolo lui, o perché tu hai tacitato tutti i segni che il corpo mandava, sempre impegnato a correre dietro ad altro? Come è stato possibile, non aver sentito, non aver intuito un così pervadente tradimento del corpo? Sceglie la solitudine, per confrontarsi da solo con il degrado che chemio e radioterapia infliggono al suo corpo, la perdita di efficienza e di forza, la perdita di integrità e di dignità fisica, e il rischio concreto di morte. «In solitudine, ci si prepara meglio. A tutto», pensa chi, come lui, cerca il silenzio. Tuttavia, questo bisogno di solitudine cozza contro l’altro immenso bisogno che ogni malattia grave comporta: il bisogno di presenza, di amore, di conforto, che riduce l’angoscia di morte. Riconosciuta, o negata, e cacciata nei sotterranei dell’anima. A volte, il dire: «Lasciami, voglio stare solo» è un modo per dire, in realtà: «Resta con me, non lasciarmi solo proprio adesso».
Che fare? Si può stare vicini, in modo molto discreto e rispettoso. Per esempio, scrivendo lettere d’amore. Rigorosamente a mano. Lettere affettuose, senza critiche alla solitudine, senza amarezze, senza rimpianti. Lettere che abbiano il profumo dei ricordi belli condivisi, delle emozioni che ci hanno arricchiti insieme e resi più vicini. Si può inviare un libro che abbia un senso: quando ci si conosce bene, è più facile scegliere un racconto, o un romanzo, che parli al cuore, anche a distanza. O un film. Oppure un fiore, di tanto in tanto. Nel contempo, è preziosa una riflessione su di sé: senza sentirsi rifiutati, perché il senso di quella scelta non è questo. La solitudine, di fronte a una malattia grave e potenzialmente mortale, non è contro l’altro, ma per se stessi. Davvero per compattarsi, per riprendere un senso compiuto di sé, per pensare alle cose ultime, per prepararsi a una guerra dura che può lasciarci sul terreno. Al contempo, è una prova difficile stare vicini alla persona amata che affronta una malattia severa, devoti e rispettosi, in punta di piedi, nell’ombra, presenti da lontano, senza parlare. Sono queste esperienze difficili che ci mettono in discussione, ci fanno soffrire e ci fanno crescere. Che fanno sbocciare la nostra consapevolezza. E la nostra umanità.

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