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Dirsi addio con dolcezza

16/01/2006

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Dirsi addio. O, forse, arrivederci, con dolcezza. Stando vicino. Accarezzando con tenerezza, a lungo, il volto, i capelli, la mano. Stare vicini, uno alla volta, parlando dolcemente, invece di stare in crocchio in quattro o in dieci, fuori dalla porta del morente, parlando di tutto fuorché di quel che conta. Stare vicini, da solo a solo, da sola a sola, anche in silenzio, perché la mano che accarezza può dire, e consolare, e dare calore all’addio, più di mille discorsi.
Accompagnare, senza trattenere con discorsi angoscianti, o colpevolizzanti, o strazianti. Quando è giunto il tempo della morte, è saggio saperlo rispettare, cercando di creare una atmosfera il più possibile serena. Questo è essenziale. E’ difficile, a volte arduo e doloroso, specie con le persone più giovani e i bambini. Eppure è proprio lo stare vicini con tutto l’amore, ma anche con il giusto senso del passaggio ineludibile, che noi possiamo addolcire e acquietare le ultime ore. Sempre verificando che, in caso di dolore, la terapia antalgica sia fatta nel modo più efficace possibile. Perché siamo nel 2006 e non nel Medioevo.
Perché parlare dell’accompagnare nel morire? Perché la morte irrompe continuamente nel nostro mondo: incidenti, terremoti, attentati, cicloni. La maggioranza delle notizie danno cifre di morte. Eppure, e purtroppo, raramente dedichiamo un pensiero, o una nota, a come accompagnare un morente nei suoi ultimi giorni. Da questo rifuggiamo come dalla peste. Eppure l’accompagnare con amore e dolcezza può pacificare il morente. E noi stessi, nonostante il dolore e lo strazio, a volte, che la perdita di una persona amata ci dà.
Può aiutarci, in questo percorso ultimo e delicato, il cercare quel piccolo segno di vita che sia speciale per la persona che stiamo accompagnando nel morire, e le regali ancora un sorriso. Qualcosa che appartenga alla sua storia, ai suoi ricordi più belli.
A volte, nella fase terminale, non hanno più spazio i dolci, o i libri, o i giornali. Ma può regalare un’emozione di gioia far sentire piano la musica preferita. Parlare dolcemente, ricordando momenti belli di vita. O far sentire un profumo amato.
Nei giardini antichi delle vecchie case, in Veneto, c’è (quasi) sempre un grande arbusto di calicanthus, che fiorisce nell’inclemente gennaio. I suoi piccoli, quasi invisibili fiori, appena osano schiudere le loro corolle giallo pallido, dal minuscolo cuore rosso cupo, contro i cieli grigi e i venti del nord. Ma il suo profumo straordinario può risvegliare le emozioni più dolci. Perché è profumo di casa, di giovinezza, di inverno che si apre ancora al sorriso della primavera che verrà. Perché nel clima asettico – o odoroso di farmaci – dell’ospedale o della casa di riposo, il profumo del calicanthus va dritto al cuore della memoria e degli affetti, con una vibrazione antica, che profuma di fresco e di vita che rinasce.
Per una zia molto amata, vicina all’ultimo giorno, ho raccolto un mazzo di calicanthus nel giardino di casa. Gli occhi chiusi, il respiro affaticato, estenuata dall’età e dalla malattia, non rispondeva già più alle voci, al richiamo del nome. Ma le carezze gentili sui capelli e  il calicanthus che pian piano spargeva il suo profumo nel tepore della stanza, hanno fatto l’ultimo miracolo. La zia, già assopita sull’orlo dell’ultimo sonno, ha aperto gli occhi, con quel lampo che dice ancora “Sei tu, sei qui...”. E con un ultimo sorriso, già lontana, ha sussurrato: “Oh, il calicanthus...”.
Morire è ineludibile. Ma è di gran conforto, per chi ci lascia, sentire che quel profumo, e una carezza amata,  hanno reso più dolce il partire, lenendo l’altrimenti tremenda solitudine delle ultime ore. Per noi, che restiamo ancora per un po’, è consolante pensare che forse, sulla porta del giardino che ci aspetta, si può passare sorridendo, se ci scalda il cuore un ultimo abbraccio e il profumo di un fiore che abbiamo amato.

Morte e mortalità Rapporto con il malato Riflessioni di vita

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