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Aborto o abbandono: il dramma della scelta

21/05/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Se non puoi tenerlo, dallo in adozione, invece di abortire”. La (ri)accesa recente polemica sulla scomunica non solo per chi pratichi l’aborto, ma anche per chi lo procuri e persino legiferi sull’argomento, ha già acceso molte discussioni. Un aspetto, tuttavia, è rimasto molto trascurato, in questi giorni, e per questo mi sembra meriti una riflessione a sé.
Perché è così facile, per molti esperti e ortodossi cattolici, raccomandare di dare un bambino in adozione, subito dopo la nascita, così da evitare l’aborto? E perché è così difficile per una donna fare un gesto simile? Dal punto di vista religioso cattolico, l’aborto è esecrabile, al punto da meritare una condanna esemplare, qual è la scomunica, perché viene compiuto contro un esserino, una piccola vita, che è al massimo della vulnerabilità e della indifendibilità (ma allora ci dovrebbe essere la stessa severità di punizione nei confronti, per esempio, dei pedofili, anche religiosi, che agiscono contro bambini altrettanto indifesi di un embrione: perché in tal caso esiste, come aggravante per chi commetta il crimine, una percezione di abuso – e di dolore fisico ed emotivo – nel bambino infinitamente superiore a un embrione di poche cellule).
Mettiamoci nei panni di una donna che scopra di aspettare un bambino inatteso. Il proseguire la gravidanza, e dare poi il bambino in adozione, è di fatto una possibilità molto meno realizzabile, rispetto all’aborto, come si diceva, per una serie di ragioni: personali, familiari e sociali.
Dal punto di vita personale, il continuare la gravidanza significa vivere per nove mesi con una vita che cresce dentro: con tutti i conflitti che una maternità non desiderata comporta, ma anche con i sogni, con l’esplorazione delle diverse possibilità di uscita da una realtà impegnativa e comunque condizionante. Con le nausee, i fastidi, le difficoltà anche fisiche di adattamento al terremoto biologico che la gravidanza comporta, ma anche l’emozione di sentire i primi movimenti del bambino. Quella sensazione di un battito d’ali o di farfalla, quando i primi movimenti indistinti creano piccole vibrazioni che possono sorprendere e intenerire; oppure portare alla collera, come segno di un’invasione non voluta. Significa fare controlli medici e vedere il bambino che cresce, con l’ecografia. Questo comporta un passaggio essenziale: passare dall’idea di bambino all'evidenza della sua esistenza, con un aumento secco dei sensi di colpa, dei sogni che spesso diventano incubi, dei dilemmi interiori. Significa arrivare al parto, e soffrire per tutto il travaglio. Con un dolore che molte donne accettano (tanto meglio se giustamente ridotto dall’analgesia epidurale) perché prelude ad una delle esperienze più belle nella vita di una donna: dare alla luce un figlio desiderato. Ben diverso è il dolore, e la sua percezione, in caso di un figlio subìto, non voluto o addirittura frutto di una violenza. Quel dolore diventa solo punizione o addirittura arbitrio. Al momento del parto, il sentirlo uscire da sé, con fatica e lacerazione, che è emotiva, oltre che fisica, è momento di drammatica verità, che si scrive nel cuore e nella mente della donna, segnando irreversibilmente il suo cuore, i suoi ricordi, i suoi pensieri. Tagliare il cordone ombelicale non si apre allora ad un rapporto di attaccamento, di amore, di tenerezza ma ad una perdita, ad un’assenza, ad una scomparsa per sempre. Se poi quel bambino non è frutto di una violenza, ma nasce comunque in un’impossibilità reale di tenerlo, anche contro una parte di sé, il vederlo, l’accarezzarlo per un attimo, lo sfiorargli le manine, il pensare: “Lo dò via, non lo vedrò più”, può davvero ferire per sempre. Un figlio che nasce non è più una potenzialità, è una realtà di evidenza ineludibile.
A livello familiare, l’abbandono di un figlio alla nascita, seppur per darlo in adozione, evoca altre dinamiche. E’ più praticabile, come possibilità, come dimostrano i dati in quest’ambito, se la donna è sola. L’equivalente della ragazza madre di una volta. Molto più difficile se ha un partner o vive comunque in famiglia o ha altri figli. Quell’assenza, quella scomparsa, scelta o forzata, evidente e risaputa, può segnare molto più pesantemente i rapporti interpersonali dentro la famiglia, di origine e acquisita. Ancor più a livello sociale. Solo in una città sconosciuta una donna può arrivare a termine di gravidanza e mettere al mondo un figlio, e abbandonarlo, senza che si scateni il pandemonio di chiacchiere, commenti, critiche e condanne, in vicini e conoscenti.
E allora, come prevenire l’aborto? La castità, tanto raccomandata, è molto meno praticabile nei fatti. Solo una minoranza delle coppie, anche tra i cattolici, arriva vergine al matrimonio. Resta allora la via della contraccezione: che prevenga il concepimento, come fa la contraccezione ormonale, che inibisce l’ovulazione, con ottima sicurezza, se usata bene. E che educhi entrambi i partner al senso di responsabilità, con uguale attenzione di lui non solo verso la prevenzione di un concepimento intempestivo, o comunque indesiderato, ma anche delle malattie sessualmente trasmesse, a volte mortali (altro crimine contro la vita), con un uso costante del profilattico.
Benissimo educare all’affettività, all’integrazione tra amore ed erotismo, al rispetto della vita, ma con un approccio pragmatico, che tenga conto della realtà di questi nostri tempi. Senza perdere di vista l’essenziale, che è concepire con consapevolezza, desiderio e assaporata motivazione, quando il grembo psichico, che è fatto di attesa e di sogni, è pronto quanto il grembo fisico. Perché, idealmente, tutti i bambini concepiti siano desiderati. L’abbandono del bambino, invece, resta un’opzione disperata: per la quale è giusto creare comunque condizioni di fattibilità, nei nostri ospedali, soprattutto per le donne sole che non se la sono sentita di abortire, o hanno scoperto tardi la gravidanza, e non sanno letteralmente dove battere la testa, anche per evitare il dramma ancora più atroce di un infanticidio.
Proporre invece come alternativa di routine all’aborto, l’abbandono di un bambino già nato, per l’adozione, mi sembra una misura umanamente molto difficile: perché tiene poco conto della verità dei sentimenti, del dolore di vivere una scelta a volte terribile, della lacerazione che ogni donna vivrebbe al momento del parto alla sola idea di una separazione definitiva. E’ possibile, se la donna si mette nella condizione mentale di dare al proprio bambino una chance di vita che lei non potrebbe dargli e con questo riesce a dar senso al proprio dolore di perderlo. Emotivamente, tuttavia, questa scelta resta un dramma: “un bambino già nato non è un paio di scarpe vecchie da dare via, perché non le si può portare più”, come mi ha detto una donna in questa situazione.
E allora? Per chi non riesca a praticare la castità, impegnarsi nella contraccezione preventiva è ancora la scelta più etica.

Adozione e affidamento Contraccezione ormonale Educazione sessuale e contraccettiva Etica e bioetica Interruzione volontaria di gravidanza (IVG)

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