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Norvegia, dopo il terrore: quando lo Stato sa come aiutare le vittime

07/12/2015

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Come si può aiutare chi sopravvive a un attacco terrroristico? Il domani può essere tragicamente doloroso per quanti hanno perduto un figlio, un genitore, una sorella, un amico. Ma altrettanto doloroso per quanti sopravvivono all’attentato con ferite indelebili, fisiche – amputazioni, cicatrici, lesioni cerebrali o midollari – e psichiche, tra cui la pesantissima sindrome post traumatica da stress.
Il lavoro svolto in Norvegia dalle autorità socio-sanitarie locali dopo gli attentati del 22 luglio 2011 merita di essere meditato, grazie a un notevole articolo scientifico analitico appena pubblicato da Freja Ulvestad Kärki, del Dipartimento Norvegese della Salute, su Psychiatry Service.
I fatti: il primo attacco terroristico fu sferrato a Oslo il 22 luglio 2011 con un’autobomba di fronte alla sede del primo ministro, Jens Stoltenberg: nell’esplosione morirono 8 persone e 209 rimasero ferite. Il secondo attacco avvenne meno di due ore dopo sull’isola di Utøya, ove era in corso un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. Un uomo travestito da poliziotto e munito di documenti falsi giunse sull’isola e aprì il fuoco sui partecipanti, uccidendone 69 e ferendone 110. Fu l’atto più violento avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale.
In casi come questi, il destino di molti sopravvissuti non è meno amaro di chi ha perso la vita, a causa delle molteplici ferite fisiche ed emotive che la violenza porta con sé, spesso per sempre, e che determinano un trauma individuale e collettivo difficile da superare. Il progetto di aiuto è stato coordinato da un gruppo di esperti a livello nazionale, provenienti da diverse realtà: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, insegnanti, educatori, gruppi di auto-aiuto, sindacati, volontari. Il modello messo a punto per assistere le vittime dirette e indirette è stato concepito su base municipale (il 44 per cento delle 428 municipalità norvegesi avevano avuto vittime e/o sopravvissuti) e presenta alcune importanti caratteristiche:
1. proattività del servizio di assistenza, volto a identificare le persone più bisognose di aiuto nei gruppi a maggior rischio di conseguenze a lungo termine: i sopravvissuti agli attacchi, soprattutto se giovani, e i loro familiari; i familiari di chi è morto; i soccorritori volontari; i soccorritori professionisti; ma anche chi si trovava, per le più svariate circostanze fortuite, sul luogo della tragedia;
2. personalizzazione degli interventi: ogni vittima è seguita da una persona di riferimento nel proprio luogo di residenza;
3. continuità del supporto e sua proiezione nel lungo periodo;
4. collaborazione fra le diverse figure di supporto coinvolte;
5. screening standardizzato dei sintomi correlati alla sindrome post traumatica da stress (sviluppato sulla base delle esperienze maturate in occasione dell’11 settembre in USA, dell’uragano Katrina e di sparatorie in luoghi pubblici);
6. riunioni nazionali di due giorni per le persone colpite da un lutto, e riunioni di contea di un giorno per i sopravvissuti agli attacchi e le loro famiglie, a 4, 8, 12 e 18 mesi dagli attentati.
Un impegno articolato e molto ben coordinato. Dopo quattro anni di follow-up, le informazioni preliminari ora allo studio indicano che: gli attacchi hanno provocato una notevole incidenza di disturbi psicopatologici, soprattutto fra i più giovani; sei mesi dopo i fatti, i sopravvissuti dell’isola di Utøya presentavano sintomi post traumatici da stress sei volte più gravi rispetto alla popolazione generale; diciotto mesi dopo i fatti, l’82 per cento dei genitori che avevano perso uno o più figli (!) manifestavano i sintomi di un lutto non elaborato. In positivo, il 95,5 per cento delle persone direttamente esposte agli attacchi ha ricevuto supporto e il 96 per cento delle famiglie colpite da un lutto considera “di grande aiuto” il supporto fornito dalle autorità.
Sono dati che ci fanno capire quanto una Nazione possa essere strutturalmente e pragmaticamente solidale per alleviare le conseguenze di una tragedia la cui onda lunga non conosce limiti, al di là delle altisonanti dichiarazioni del momento così frequenti in altri Paesi. Dati che ci fanno toccare con mano quanto professionale, capillare ed efficace possa essere l’intervento di aiuto, offrendo un modello articolato, controllato e dai risultati documentati. In positivo, davvero volere è potere. Che cosa è stato fatto, in Italia, per aiutare le vittime dei tragici attentati che hanno seminato la morte fra gli anni Settanta e Novanta? Nulla. La tragedia della latitanza dello Stato, nell’aiutare le vittime, aggrava il peso del terrore e della morte. Abbiamo molto da imparare.

Politica Sicurezza Sindrome post traumatica da stress Terrorismo

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