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Nativi digitali: i rischi di nanismo culturale

11/01/2016

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

“Cliccatori di schermi”: così un etologo potrebbe definire le ultime generazioni, individuando in questo comportamento il denominatore comune dei cosiddetti “nativi digitali”. I quali hanno almeno tre caratteristiche principali: l’impoverimento dell’uso delle mani, ridotte al solo cliccare; l’esperienza bidimensionale/visiva del mondo, invece di quella tridimensionale/a tutto corpo e con tutti i sensi; la delega della memoria e della conoscenza, certo disponibili in remoto su computer e tablet, ma con teste sempre più vuote di pensieri e cultura propria, fino al “nanismo culturale”.
Quali rischi comporta l’ultima evoluzione dell’homo (e della femina) sapiens? Come è possibile mantenere i vantaggi dell’era digitale senza perdere alcune conquiste essenziali dell’evoluzione? Uno degli elementi cardinali che sembra aver consentito il balzo dalla scimmia all’uomo è stato il “pollice opponibile”: ossia la capacità di afferrare e usare oggetti all’inizio rudimentali – pietre e legno – per fare utensili, per costruire con le proprie mani, affinando cervello e visione progettuale tridimensionale con crescenti capacità esecutive biomeccaniche. La mano è il primo vero strumento del genere umano. Nell’homo sapiens è anche un mezzo di espressione quando aiuta la parola, la sostituisce e/o la integra tramite la scrittura o il linguaggio dei segni. L’homo faber, l’uomo che amava fare da sé in modo sempre più raffinato e mirato, è arrivato alla grandezza costruttiva – ingegneristica e architettonica – dei Romani o di altri popoli antichi, le cui costruzioni sfidano i secoli, mentre le nostre si sgretolano in pochi decenni. E’ giunto alla ceramica, a forgiare metalli, alla finezza della scrittura, alla pittura, alla scultura, ma anche alla grande arte del costruire e saper suonare uno strumento musicale o del saper coltivare su ogni terreno.
Per contrastare il rischio di perdere l’abilità manuale, e con essa tutto l’allenamento mentale e fisico, sensoriale e muscolare, ideativo-progettuale ed esecutivo-realizzativo, e l’eccellenza che ne deriva, è indispensabile tornare con entusiasmo e determinazione a stimolare il gusto del fare in bambini e adolescenti, e mantenerlo negli adulti. Bisogna incoraggiare i piccoli a scrivere a mano: tutta la personalità e la storia vissuta si rispecchiano in quei minuti segni grafici, che parlano di noi. Per scrivere bene dobbiamo aver affinato una coordinazione motoria formidabile e un cervello esecutivo raffinato, coltivando in parallelo i contenuti di cui scrivere. Seguendo l’inclinazione personale, è prezioso stimolare i bimbi a disegnare, a costruire con vari materiali, a cucire.
Per evitare le insidie del secondo rischio, ossia di un’esperienza del mondo bidimensionale/visiva, indiretta e passiva, è necessario valorizzare quella diretta, così intensa e così entusiasmante, di fare con tutto il corpo e tutti i sensi, e vivere in prima persona ogni esperienza. Fantastico se un genitore col gusto del bricolage o della cucina lo trasmette ai figli, maschi o femmine che siano. Se si diverte con loro a zappettare insieme in giardino o sul terrazzo, e trasmette il gusto di lavorare con la terra, di seminare e piantare anche un piccolo orto. Ottimo dare l’opportunità di suonare uno strumento musicale, se il piccolo ha il gusto della musica. E di fare tanto sport, il miglior antidoto alla vita indiretta e passiva da “incollati al video”, ultima involuzione dell’intellettuale che ha dimenticato di avere un corpo. E che si avvita spesso in un’accidia al limite della depressione, dilaganti entrambe tra i nostri giovani. Un fare variato con un denominatore comune: coltivare il gusto di usare le proprie mani, con sensibilità, curiosità, abilità crescente e tatto, per tenere in gran forma mente e corpo.
Il terzo rischio, il nanismo culturale, è già in stato avanzato ed epidemico: senza un supporto digitale molti adolescenti non sono più in grado di fare nemmeno le operazioni di calcolo più elementari. Il tanto vituperato “imparare a memoria” era in realtà un allenamento indispensabile per scrivere nel cervello le nostre conoscenze: la ripetizione è essenziale per consolidare un’abilità e una competenza, a tutti i livelli di apprendimento. Questo è ovvio per tutti per lo sport e per la musica: perché la cultura dovrebbe essere un’eccezione? La delega progressiva del sapere e della memoria a oggetti “in remoto” finirà per fare di noi degli automi con la testa vuota nelle aree della conoscenza, con la corteccia cerebrale sempre più piccola, in drastica involuzione. Automi pilotabili a distanza, con un tweet, che si illuderanno, forse, di essere ancora liberi, avendo purtroppo smarrito ogni libertà da quando hanno abdicato alla proprietà interiore di pensiero, memoria e cultura. Cui prodest, a chi giova?

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