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Madri e figlie: i chiaroscuri dell'ovodonazione in famiglia

23/04/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Una donna canadese ha deciso di donare i propri ovociti alla figlia che altrimenti non potrebbe mai avere figli. Il caso sta infiammando il Canada, come sempre succede quando le possibilità che la medicina offre comportano di necessità un’accurata riflessione bioetica. Che è bene condividere, perché ognuno possa gradualmente maturare sul terreno etico, che ci coinvolge tutti, una propria convinzione, ragionata e meditata, senza i furori e le distorsioni generate dall’emozione.
In Italia, come è ben noto, l’ovodonazione è proibita, dopo il referendum dello scorso anno. Tuttavia, questo caso ripropone in termini affettivamente più intensi (tra madre e figlia) una scelta (l’ovodonazione) che per molti era altrimenti da escludere a priori.
Tutti si congratulano se un genitore offre a un figlio o a una figlia un rene, un pezzo di fegato o il midollo osseo per un trapianto: in questi casi la donazione è non solo legale, ma apprezzata e valorizzata come esempio della più intensa oblatività che un genitore possa mostrare verso un figlio. Se però una stessa madre decide o vorrebbe donare i propri ovociti alla propria figlia, si scatena il pandemonio. Perché la donazione di quest’unica, particolarissima cellula, genera un’eccezione etica sostanziale rispetto a tutte le altre donazioni d’organi all’interno di una stessa famiglia?
Vediamo insieme i termini della questione, cominciando dallo scenario in cui ognuno di noi, se ha figli piccoli, potrebbe venirsi a trovare.
Innanzitutto, è raro che una adolescente o una giovane donna si trovi senza ovociti? No. L’1 per cento delle donne va in menopausa precoce spontanea, perdendo tutte le cellule riproduttive e quindi la fertilità (la cosiddetta Premature Ovarian Failure, POF, l’esaurimento ovarico precoce) prima dei 40 anni. Un altro 3-4,5 per cento di donne, a seconda del Paese considerato, va invece in menopausa precoce, sempre prima dei 40 anni, a causa di cure mediche (chemioterapia, radioterapia e/o asportazione bilaterale delle ovaie). Si parla allora di menopausa “iatrogena”. Questo gruppo di donne è in netto aumento soprattutto grazie ai progressi dell’oncologia pediatrica. Basti pensare ai bambini colpiti da leucemie o linfomi: negli anni Settanta sopravviveva il 10-20 per cento. Oggi siamo all’80 per cento. Il prezzo della sopravvivenza, tuttavia, è la distruzione del patrimonio di cellule riproduttive a causa delle cure molto aggressive necessarie per sconfiggere il tumore. A meno che queste cellule, preziose e fragili, non vengano salvate mediante congelamento dello sperma (come oggi si fa nei maschi, quando il tumore compare dopo la pubertà) o degli ovociti o di frammenti di ovaio (come si sta iniziando a fare per le ragazzine adolescenti e le giovani donne, con problemi tecnici tuttavia molto più complessi).
In altri termini, nella donna il patrimonio di cellule riproduttive (“ovociti”) può esaurirsi molto prima della normale età di cinquant’anni e qualche mese. La scomparsa degli ovociti può essere così precoce da compiersi prima della pubertà: in tal caso i medici parlano di “amenorrea ipergonadotropa”. La ragazza non ha mestruazioni e ovulazioni, e nemmeno inizia la pubertà, nonostante il cervello stimoli l’ovaio con i suoi ormoni: senza cellule riproduttive non c’è storia e non ci sono cellule da salvare. In tal caso, noi medici interveniamo con ormoni bioidentici, ossia naturali, per favorire tutto il processo puberale. Fin qui, tutto bene, si è nella piena e approvata liceità. Tuttavia, la ragazza resterà sterile. A meno che, per l’appunto, la madre, se ancora giovane, come è il caso della signora canadese, trentaseienne, non decida per l’ovodonazione.
Quali sono i vantaggi, gli aspetti positivi di questo gesto? Innanzitutto, la generosità della donazione, in linea, in questo senso, con tutte le altre donazioni di organi e tessuti, specie intrafamiliari. E il potenziale di speranza, di fiducia nel futuro, di rassicurazione, che questa possibilità dà alla figlia. Dopo lo shock di una diagnosi pesante come una menopausa precocissima (o addirittura un blocco puberale) spontanea o per cure mediche, la possibilità di una futura maternità, anche solo teorica, ha senz’altro un impatto positivo straordinario. Perché aiuta la ragazza, la giovane donna, già provata da diagnosi impegnative e cure spesso pesantissime, a tenere lo sguardo su un frammento di cielo azzurro quando tutto l’orizzonte è coperto da nuvole nere e minacciose.
In seconda battuta, questa donazione particolare consente di ridare almeno in parte alla figlia quello che ha perduto: ovociti che hanno la metà del suo patrimonio genetico (ossia quello di derivazione materna: 25 per cento dal nonno materno e 25 per cento dalla nonna materna. L’altra metà infatti le è venuta dal padre al momento del concepimento). Questo consente, almeno in parte, la continuità genetica della famiglia e rinforza il senso di appartenenza. Continuità genetica? Sì: questo aspetto resta fondamentale anche oggi. E’ questa motivazione, conscia e inconscia, che porta le coppie ad affrontare le ardue difficoltà della fecondazione assistita, invece che, per esempio, scegliere l’adozione. Le consentirebbe, inoltre, un’esperienza di gravidanza con geni familiari: e l’ambiente uterino, che è fatto di ormoni, di neurotrasmettitori, di biochimica ma anche di emozioni, potrebbe poi ulteriormente modulare questa appartenenza in senso favorevole. Anche se non è detto, per la verità, che la figlia, che ha oggi sette anni, decida in futuro di cogliere questa opportunità.
E allora, perché la discussione bioetica è accesissima? Perché l’ovodonazione, diversamente dalla donazione di organi, non è decisiva per la sopravvivenza del/la ricevente. Perché dà luogo ad una vita a sé. Perché scompiglia la millenaria simmetria delle generazioni e dei rapporti familiari. Se questo tipo di donazione è legale, la figlia, concependo con gli ovociti della madre, avrebbe un figlio che dal punto di vista genetico le è in parte fratello (se maschio) o sorella (se femmina). E il genero concepirebbe (in vitro, ovviamente) un figlio con gli ovociti della suocera. Una riscrittura dei legami familiari per molti inaccettabile, specialmente a livello simbolico e religioso.
Non solo. Molti si chiedono: questo bambino, che avrebbe una madre “uterina” e una nonna che gli è madre genetica, come crescerà? Potrà avere dei problemi? Molto dipenderà dall’atmosfera affettiva che il bambino si troverà intorno: se sarà amato, il fatto di essere nato grazie alla generosità della nonna potrebbe non creare problemi. Se invece si trovasse in una situazione affettivamente difficile (madre che non lo ama o è ambivalente, padre che non riesce ad accettare le “complicazioni” genetiche di questa situazione), ecco che questa nascita particolare potrebbe coagulare molte altre ragioni di infelicità, e di solitudine, diventando una sorta di colpa originaria immodificabile.
E allora? E’ saggio che ognuno di noi rifletta in cuor suo e con la propria famiglia su questa possibile scelta, che ancora una volta ci ripropone lo scontro tra le ragioni del cuore, che forse favorirebbero questa donazione, e le ragioni della mente, che più lucidamente ci portano a riflettere sulle potenziali insidie di questa possibilità. Perché pensarci? Perché la riflessione etica individuale contribuisce sempre alla coralità delle percezioni sociali, nel bene e nel male. E può aiutarci, in ogni campo, a prendere le decisioni etiche migliori. Soprattutto oggi, in cui le crescenti possibilità della medicina ci portano ogni giorno a interrogarci su una questione fondamentale: se tutto quello che è tecnicamente fattibile può diventare realizzabile. E se questo, di per sé, lo renda lecito. O se altre variabili affettive (in questo caso la donazione intrafamiliare) possano rendere selettivamente accettabile e fattibile un gesto – oggi l’ovodonazione – che in Paesi come il nostro è attualmente illegale.

Fecondazione assistita Fertilità e infertilità

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