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Liberazione, guerra e genocidio: due libri necessari per comprendere le radici del male

27/04/2009

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

«Siamo sempre alla ricerca del libro necessario», diceva Saul Bellow, famoso critico letterario americano. “I sommersi e i salvati” di Primo Levi (Einaudi) rientra in questa rara categoria, che merita ricordare proprio per l’Anniversario della Liberazione. E non solo. Rileggendolo, dopo tanti anni, credo dovrebbe essere adottato integralmente fra i libri scolastici, come lettura fondamentale per i nostri adolescenti. E scelto come (ri)lettura necessaria per noi adulti. Perché? Innanzitutto, per non dimenticare nella sostanza quanto è avvenuto, anche per clamorose complicità e omissioni. Perché questo anniversario abbia un significato profondo, proprio attraverso lo sguardo limpido e dolente di Primo Levi. Perché è raro trovare nella testimonianza di chi ha vissuto le atrocità della guerra, e nello specifico dei campi di concentramento, tanta lucida e onesta capacità di cogliere la complessità dell’animo umano, le crudeltà, gli asservimenti, le collusioni, anche tra le vittime e contro le vittime. Che a loro volta, e per pochi mesi, potevano diventare persecutori dei loro stessi fratelli. I Kapò, le Squadre Speciali, altro non erano se non ebrei, chiamati a fare il “lavoro sporco”: radere altri ebrei, spogliarli, portarli nelle camere a gas, rimuoverne i cadaveri, gettarli nelle fosse comuni, o nei forni. Per qualche mese, poi venivano sostituiti, e facevano la stessa fine degli altri ebrei portati poco prima alla morte. Non si trova, nelle sue pagine, la comoda stereotipia dei buoni tutti tra le vittime e dei cattivi dall’altra parte. La verità degli uomini, vittime o carnefici che siano, viene descritta senza partigianeria, senza scotomizzazioni: il loro cinismo, la loro brutalità, la lotta per sopravvivere ad ogni costo erano più forti dei legami di razza, di religione o di sangue. Perché hanno accettato quel compito, ebrei contro gli ebrei? Perché non si sono ribellati, non hanno preferito la morte? Per una dolorosa verità, che gli eventi di cui è stato testimone hanno dimostrato: «I salvati dal Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio (…). Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie (…) Le prime minacce, i primi insulti, i primi colpi non venivano dalle SS, ma da altri prigionieri, da “colleghi”, da quei misteriosi personaggi che pure vestivano la stessa tunica a zebra». Sgradevole, ma profonda verità.
Secondo, per la lucida descrizione della dipendenza dal potere: «Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altro è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza (…)». Compare così: «La sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve del comando, il disprezzo delle leggi (…) Piuttosto che logorare, il potere corrompe». C’è qualcosa di meno attuale?
La terza ragione riguarda il grande caveat che Levi formula nei confronti di ogni sistema e, in particolare, dell’alibi autoassolutorio: «Me l’hanno comandato». Frase tipica di chi esegue gli ordini più atroci senza discutere, forte di questa pericolosissima motivazione. La stessa che è così ben descritta da Gitta Sereny, giornalista straordinaria, nel suo capolavoro, “In quelle tenebre” (Adelphi, 1975), in cui intervista Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka. Oggi come ieri, la tendenza a incolpare il sistema, o lo Stato che sia, veicola in sé i germi di un’abdicazione sostanziale del principio di responsabilità personale. Ed è ancora più disturbante in un periodo di recessione in cui in pochi hanno mandato a fondo i molti, senza salvagente e senza che sappiano nuotare. Ecco che allora «l’atteggiamento conformista, l’inclinazione ad ubbidire agli ordini, a soggiacere a qualche autorità, al desiderio di fare carriera», all’interesse personale possono ottundere il senso di responsabilità, il senso etico personale, e portarci a compiere gesti distruttivi dal punto di vista morale, fisico, economico...
Non dimenticare, dunque, con un serio esame di coscienza su quanto le acque profonde dei comportamenti umani restino pericolosamente uguali nel tempo, chiedendoci di essere vigili, perché il primo nemico non è negli altri, è dentro di noi e nelle complicità che più o meno consapevolmente accordiamo al male, per un vantaggio personale.

Libri e lettura Riflessioni di vita Storia

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