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Le età della vita dell'uomo

20/12/2010

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Ci sono tre età nella vita dell’uomo” – diceva Edward De Bono – La prima è l’età del “why?”, il “perché?” interrogativo. Va dalla nascita ai 5 anni, quando il bambino si interroga continuamente sul mondo che lo circonda arricchendo il proprio cervello e il proprio sapere di continue informazioni. Poi inizia l’età luminosa del “why not” (perché no?), l’unica età veramente creativa dell’uomo, dai 5 ai 10 anni, in cui il bambino esplora sempre più possibilità e più risposte, rispetto allo stesso problema. E poi, concludeva tristemente De Bono, inizia l’età della fine (del cervello e della creatività) quando cominciamo a ripetere “because” , il “perché” assertivo.
De Bono è studioso di pensiero creativo e autore di libri cult che dagli anni Settanta in poi hanno rivoluzionato le modalità di soluzione di problemi complessi, come “Lateral thinking” (Creatività e pensiero laterale, Rizzoli, 1998). Mi è tornato in mente, il suo why not, riflettendo su due tipi di pazienti, che differiscono nettamente nell’approccio alla malattia e alla sua cura, soprattutto quando si tratta di patologie che richiedono un serio impegno sul fronte degli stili di vita da modificare.
Al primo gruppo appartengono soprattutto giovani pazienti, con una caratteristica precisa: quando analizziamo insieme i fattori che predispongono ad una patologia, anche seria, che la scatenano o la mantengono, impedendo la guarigione, rispondono con un monolitico e lapidario: “Lo so”. Espressione che, nella sostanza, equivale al restrittivo “because”, nel senso di “Lo so, sono fatta così e non cambio”. Per inerzia, per mancanza di determinazione e disciplina, per incapacità di darsi delle regole, per accidia, per depressione, non si impegnano al cambiamento, si arrendono al malessere o alla franca malattia, salvo lamentarsi sulla sfortuna o peggio e nel contempo sperare nel guru che magicamente risolva il problema senza sforzi personali. Al secondo gruppo appartengono le pazienti di ogni età, che invece dicono: “Provo a cambiare” (why not?), “Ci provo”, “Mi impegno”, “Voglio proprio venirne fuori e provo a fare tutto quello che mi consiglia pur di guarire!”.
Dal punto di vista medico, quel “Lo so” è un semaforo rosso, un segnale di allarme su una prognosi più riservata, proprio perché mi rivela quanto sarà scarso l’impegno personale. In effetti, è più frequente avere questa risposta dalle più giovani: forse per maleducazione, ma anche perché i nostri figli sono meno allenati a provarsi con le difficoltà, a sperimentare cambiamenti in cui si debbano impegnare attivamente e a lungo, rispettando regole diverse e nuove, dalle modifiche di stili di vita dannosi (dal fumo all’alcol, dalla sovralimentazione ai rapporti non protetti) ad atteggiamenti mentali più positivi e costruttivi. La questione non è accademica, ma condiziona profondamente la prognosi. Nel caso, per esempio, di sindromi dolorose ginecologiche, la modifica degli stili di vita errati è fondamentale: basti dire che l’eliminazione dalla dieta di cibi cui la persona è intollerante o allergica può da sola ridurre il dolore del 40%, mentre l’eliminazione di abbigliamenti inadeguati può contribuire per un altro 10-20% . Ed ecco il risvolto pratico: le giovani donne che seguono il “why not”, e provano a cambiare tutti i fattori negativi, accelerano la guarigione. Nel caso della vulvodinia, per esempio, il 32% guarisce completamente in tre mesi (di fronte a un tempo medio di guarigione di nove).
Certo, nell’evoluzione di una malattia ci sono anche fattori non modificabili, genetici o acquisiti, specificamente legati a quella patologia. Tuttavia, l’atteggiamento del paziente – maschio o femmina che sia – è fondamentale. Chi sa cambiare, chi si mette d’impegno per modificare tutti i fattori di rischio o peggiorativi, ed è rigoroso nel mantenere la via del cambiamento, può addirittura arrivare a uno stato di salute, fisica e mentale, migliore di prima dell’inizio della specifica patologia. Di converso, tutti i cultori del “lo so” sprofondano gradualmente nella palude dell’inerzia fisica e mentale. Incapaci o non motivati a mettersi in discussione e a cambiare, incapaci di pensarsi in altro modo, scrivono da soli il proprio destino di infelicità, e non solo nella malattia.

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