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La storia della piccola Gaia: un fiore al posto del fiocco rosa

La storia della piccola Gaia: un fiore al posto del fiocco rosa
06/10/2020

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Per gentile concessione di D La Repubblica
«L’avevamo atteso tanto, questo bambino. Con quattro cicli di fecondazione assistita, solo aborti precocissimi. Forse per una causa immunitaria, aveva detto il medico. Ci eravamo rassegnati. A quarant’anni, un ritardo mestruale. Ho fatto il test: positivo! Non ci potevo credere. Il seno più gonfio, neanche l’ombra di ciclo. La gravidanza continuava. Non eravamo mai stati così felici! Un dono di Dio. Avevo pregato tanto. E adesso il regalo più bello!».
«E’ stato un tuffo al cuore, vedere il cuoricino che pulsava, sentirlo pulsare, già al secondo mese», aggiunge il marito. «Un figlio è un’idea fin che non lo vedi. Se gli vedi il cuore che batte, senti che esiste davvero. Prima per me i bambini esistevano solo quando li vedevi, dopo il parto!».
L’uomo, sui 45 anni, è una persona gioviale, un artigiano con un volto franco, dove le emozioni traspaiono rapide, passando veloci dal sorriso di saluto all’inquietudine.
«La felicità è durata neanche tre mesi: la seconda ecografia a 12 settimane ci ha preoccupati tanto. A livello della testa, con un esame particolare [translucenza nucale] la dottoressa ha visto qualcosa che non andava. Uno spessore maggiore dietro la nuca del feto, una macchietta nera, “translucida”, che per noi era arabo. Lei invece ci ha spiegato che non era un buon segno, che ci poteva essere il rischio di una malattia seria, come la sindrome di Down. All’età di mia moglie il rischio è circa l’uno per cento, ci ha detto. Erano necessari altri esami. Siamo rimasti gelati, non riuscivamo neanche a guardarci negli occhi. Siamo usciti in silenzio. Mia moglie piangeva. L’ho presa per mano, senza parlare».
«Che cosa posso fare per voi?».
«Volevamo sentire un altro parere, essere aiutati a scegliere», continua lui. «Per questo siamo qui».
«La dottoressa ci ha fatto fare un esame del sangue, il duo test». Si tratta del dosaggio dell’alfa feto proteina e del β HCG libero.
«Ma anche quello non va bene», aggiunge lei, preoccupata e triste. Una donna riservata, riflessiva, con molte domande inquiete dentro gli occhi scuri.
«Dovevamo decidere se fare la villocentesi o l’amniocentesi. Purtroppo sto diventando un po’ esperto in un campo in cui avrei preferito non sapere niente. Altro che regalo di Dio!», commenta amaro il marito.
«Per la villocentesi avevamo pochi giorni», aggiunge la moglie. «Ma quando ci hanno detto che con l’esame c’è un rischio di aborto, intorno all’uno per cento, io non me la sono proprio sentita. Solo a pensarci mi venivano i brividi… Sono al quarto mese, ci resta poco per l’amniocentesi. Ma io ho tanta paura a farla».
«Dottoressa, glielo dica lei che bisogna farlo, questo esame! Non possiamo restare in quest’angoscia!».
«Che cosa le fa paura, signora?», chiedo con dolcezza. L’angoscia di entrambi è palpabile. Fa stringere il cuore anche a me. La decisione che intuisco è lacerante, quale essa sia: per la donna e per la coppia.
«Lei è donna, forse glielo hanno già detto altre sue pazienti. Mio marito non capisce cosa intendo. Ma io, soprattutto la notte, sento qualcosa. No, non colpetti. Come le ali di una farfalla. Per lui il bambino esiste da quando l’ha visto. Anche per me, ma era una cosa ancora di testa. Adesso che ho sentito quel movimento, come una farfalla, adesso il bambino esiste davvero. E’ vivo dentro di me. E vorrei tenerlo con me».
«Ma almeno sapere, no?!».
«Un esame invasivo come l’amniocentesi, che ha la stessa percentuale di aborto dell’uno per cento, come la villocentesi, si fa a una condizione».
«Quale?», chiede ansioso lui. Lei tace.
«Che il risultato dell’esame cambi la decisione terapeutica: se il risultato confermasse il Down, quale sarebbe la vostra scelta?».
Restano silenziosi. Lui la guarda, un sospiro trattenuto: «E’ giusto che decida di più lei».
«Il bambino è vivo. Mi chiede di tenerlo…». La voce è un sussurro tra le lacrime.
E’ lui a telefonarmi, cinque mesi dopo: «E’ nata. E’ una bambina: Gaia. Non si vede neanche tanto…».
Giorni dopo, passando davanti alla loro casa, una cosa mi colpisce. Non c’è il fiocco rosa.
«Abbiamo preferito piantare una bella rosa: come nella vita, ci sono i fiori, e le spine».

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