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L'eredità dell'11 settembre

11/09/2006

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Quale eredità ha lasciato, l’11 settembre del 2001? Un’eredità di orfani, innanzitutto.
Tutti i bambini, centinaia, i cui genitori, uno o entrambi, lavoravano nelle Torri colpite. Nello spazio di un mattino, un salto nel buio. Dall’avere una famiglia, a ritrovarsi soli. Una catena di orfani che non finisce: non finisce in America, non finisce in Inghilterra, dove i soldati ora in missione in Afghanistan o in Iraq muoiono a ritmo settimanale, se non quotidiano. E che non finisce in Italia: anche i nostri soldati, impegnati e  uccisi in missioni di pace, hanno lasciato i loro orfani. Altri ne lasceranno, su nuovi fronti. E orfani tra le popolazioni stesse, in cui la guerra civile ormai in atto considera uomini, donne e bambini come irrilevanti pedine di un gioco di potere mortale.
Tutti gli adulti, decine di milioni, che in Occidente, nei Paesi ad alto reddito, sono rimasti orfani di qualcosa di più profondo, invisibile, eppure fondante. Orfani di quei sentimenti che nutrono la linfa morale di una nazione e di un popolo: la fiducia che, finita la guerra fredda, ci potesse essere una pace duratura; l’ottimismo che entro i confini della propria terra si potesse davvero vivere in pace; la convinzione che sulla scacchiera del mondo ci fossero regole condivise; la certezza che ci potesse essere un futuro migliore, non solo per noi, popoli benestanti, ma anche per le molte genti per le quali la fame è ancora il pane quotidiano.
Con l’11 settembre, ma anche con gli attacchi di Madrid dell’11 marzo 2004 e di Londra del 7 luglio 2005, è stato colpito il cuore dell’Occidente. E il cuore ricorda di più le emozioni negative, nel nostro corpo come nel corpo delle nazioni. Le ricorda di più, se all’infarto massivo, qual è stato quel giorno di fine estate del 2001, fa seguito una teoria, una sequela di piccole o grandi crisi, microinfarti e angine emotive, tutte le volte in cui una bomba arriva a segno, o un attentato viene scoperto in extremis.
Un’eredità, tuttavia, non è mai neutra: chi la riceve fa la differenza. Può trasformarla in un’occasione di involuzione, oppure di crescita; in un alibi eterno, che legittima misure difensive o ritorsioni sproporzionate, oppure in un’opportunità di rileggere il presente e la sua complessità con il coraggio del cambiamento.
La politica, si dice, è un’arte difensiva: si risponde alla mossa di un altro. Tuttavia, il gioco di rimessa, la risposta reattiva in quanto tale, a caldo o a freddo che sia, contiene un limite strategico sostanziale. Di fatto è suddita delle regole create dall’altro, soprattutto se queste nuove regole continuano ad essere univocamente attive.
Il terrorismo criminale e omicida, inaugurato l’11 settembre con un attacco reale e mediatico inimmaginabile, ha cambiato le regole del mondo occidentale. E ancora oggi, dopo cinque anni, l’America e l’Occidente rispondono, di fatto, a quella prima mossa. Una mossa che ha reso obsolete  tutte le guerre a blocchi fisicamente contrapposti, ha reso vane le frontiere, ha ridicolizzato i sistemi di intelligence che a torto e presuntuosamente si credevano invincibili. Questo nemico, mai prima dichiaratosi, si è fiondato come un’aquila meccanica sulla sua città simbolo, New York, sulla sua terra – cosa mai successa nella storia degli Stati Uniti, se si escluda la lontana Pearl Harbour – e ha distrutto con artigli di fuoco non solo torri e persone, ma la convinzione di unicità e invulnerabilità. Ha frammentato i fronti, con una pioggia spaventosa di terroristi suicidi. Ha reso possibile ogni bersaglio, con una fluidità di attacchi a sorpresa sconcertante per efficacia e senso del tempo. Del tempo emotivo di chi subisce l’attacco, intendo.
Che cosa ci resta, di quest’eredità di fuoco, di morti e di veleno morale, oggi? Da un lato, l’amnesia quasi generale con cui gli umani si salvano da ogni tragedia, continuando le loro piccole vite di formichine indaffarate. Un’amnesia che copre una verità molto più disturbante, anche per noi europei, che ci viene ricordata in ogni istante, se si viaggi molto, o si leggano i giornali dei Paesi occidentali con occhio critico. La nostra libertà è svilita, condizionata, ridimensionata, amputata: è un mito, un sogno, un’illusione, ma non è più una realtà. Dall’altro, una reattività esasperata, difensiva e a tratti perfino ossessiva. Sì, l’America ha contrattaccato, ma sempre in una strategia reattiva – in senso psichico – della quale si è sempre meno convinti. Ma noi, e i nostri Stati, siamo ancora e sempre in difesa, e lo saremo sempre più, in un parossismo scomposto che continua ad essere alimentato da attacchi  imprevedibili, se non si cambia strategia.
Né l’amnesia autoconsolatoria, né l’arroccarsi in difesa, esasperando i propri cittadini con controlli a tratti paranoici e a tratti colpevolmente lassi,  ristabiliscono le regole di una convivenza civile. Per uscire dalla trappola, come insegnano le trappole cinesi, occorre fare l’unica cosa che gli animali non fanno: tornare indietro. Tornare indietro, metaforicamente, per capire quali siano stati davvero gli errori, psichici, prima ancora che politici e strategici, che hanno reso possibile un attacco di morte e privilegiato, poi, gli aspetti oscuri di un’eredità così feroce e complessa. Tornare indietro, e tornare a se stessi, anche come Paesi, per guarire da queste ferite profonde, e ripartire. Per ritrovare una fiducia che non si faccia intimidire e un coraggio che sappia ridare le regole che storicamente appartengono al vivere civile occidentale. Per farle osservare, non difensivamente, ma costruttivamente, come è stato fatto recentemente a Londra, con l’aiuto di molti Paesi europei, sventando l’ultimo attacco.
Si può essere orfani, e non smarrire la propria storia e la propria eredità morale. Dopo cinque anni, l’eredità negativa comincia ad essere decantata. Ma si può fare di più. Per cominciare a riassaporare il profumo di libertà civile in cui credevamo. Perché tutte le vittime del terrorismo non siano morte invano.

Guerra Politica Terrorismo

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