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L'educazione civica comincia da bambini

22/06/2009

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Sporco, dunque sono!”. Parafrasando tristemente il “cogito, ergo sum”, il “penso, dunque esisto” cartesiano, si può dire che oggi molti cittadini costruiscano la loro identità civica sull’oltraggio al bene pubblico. Imbrattando, devastando, distruggendo, sporcando: il loro Io si gonfia, si esalta, si entusiasma, solo quando possono lasciare di sé una traccia di lordura, di bruttezza, di devastazione, piccola o grande che sia. Come se tutto ciò che appartiene agli altri e, i particolare, ai beni e allo spazio pubblici andasse in quanto tale degradato, imbruttito, insultato. La devastazione dei muri urbani è la firma di questa identità negativa, transitoria o definitiva, che non sa dare altro segno di sé se non lo sfregio. Ad essa si affianca l’uso di gettare per terra, lungo le strade, ai lati dei boschi o nelle aree di parcheggio, rifiuti non biodegradabili – lattine, sacchi di plastica e oggetti vari – a imperituro segno del proprio sporco passaggio. L’indifferenza al diritto altrui di passeggiare sul pulito include i proprietari di cani che, indifferenti anch’essi a precise leggi urbane e al diritto altrui, non raccolgono i rifiuti dei loro amati. E’ la natura italica sporca “per natura”, per beffa genetica e predisposizione cromosomica al pubblico oltraggio? No, esiste invece una complessità di fattori che, da un lato, non educano al rispetto degli altri e dello spazio pubblico, e dall’altro, e ancor più negativamente, garantiscono l’impunità a tutti coloro che fanno dello sporcare, come si diceva, l’elemento forte del proprio esistere.
Come si educa al rispetto? Fin da piccini. Ricordo che mio padre ci insegnò a conoscere i principali segnali stradali – l’abc dell’educazione civica – prima che andassimo alle elementari. E guai a gettare una carta di caramella per terra. Bastava un’occhiata di rimprovero per riprenderla su. Se non c’era un cestino a disposizione lungo la via (e, ai tempi, ve n’erano molti meno di oggi) la carta andava messa in tasca o in borsetta, e poi buttata nelle immondizie a casa. “La strada è come casa tua: come non butti le carte sul pavimento, così non le devi buttare per strada”. Punto. Elementare. E questo era coerente con il suo comportamento. Perché i bambini imparano filmando gli adulti e il loro stile di vita. Se il papà butta la scatola di sigarette dal finestrino della macchina e la mamma lascia i residui del picnic nel prato, non c’è lezione di educazione civica che possa poi sperare di migliorare un comportamento già scritto nel cervello. A meno che non si inneschi un meccanismo di ricompensa e punizione: premio a chi rispetta le cose e punizione a chi le imbratta o le devasta. Nella nostra specie il meccanismo della punizione e della pena certa funziona benissimo, contrariamente a quanto pensa, purtroppo, molta parte della nostra sinistra. In Gran Bretagna, per esempio, il fenomeno degli hooligan, del teppismo da stadio, è praticamente finito. Pene dure e certe, con galera da scontare fino alla fine della pena comminata, hanno calmato anche i più facinorosi. Quanto ai writer, gli imbrattamuri nostrani, Londra è ora una città deliziosamente pulita. Telecamere anche nelle metropolitane e pene certe agli imbrattatori hanno convinto la gran parte dei sedicenti artisti di strada a lasciar perdere. Tolleranza zero: perché camminare nel bello e nel curato è un diritto di tutti e un piacere per tutti coloro che lo sanno apprezzare. E sbaglia chi dice che imbrattare un muro (altrui) alla fine sia una sciocchezza e siano ben altri i problemi civili. Ogni strada di mille miglia, dicono saggiamente i cinesi, comincia con il primo passo. La deriva del senso civico che inizia con lo sporcare e l’imbrattare finisce spesso (anche se non sempre) in trasgressioni più pesanti e pericolose. Tanto vale impostare il comportamento in modo rispettoso fin da piccoli. Intervenendo con fermezza anche alle trasgressioni successive, di cui l’adolescenza è oggi la fase più “feconda”, ma di cui non è esente l’età adulta. Gli italiani, si diceva, hanno forse per natura la vocazione a sporcare e abbruttire? No, anzi, purché una buona educazione in famiglia e un buon governo della città si uniscano per aumentare il senso del bello e il rispetto della cosa pubblica. Infatti, anche in Italia, esistono isole felici. Per esempio, il centro storico di Treviso dove, sabato scorso, mi sono deliziata passeggiando in una città encomiabilmente linda. Case ben ristrutturate, balconi, anche piccoli, ridenti di fiori, giardini curati con gusto, strade pulite e muri in maggioranza intatti (al confronto, Milano è uno strazio). Chiuso al traffico per gran parte, il centro ridà il piacere antico di passeggiare nel bello, per una felice sinergia tra impegno individuale di moltissimi trevigiani nel curare case, balconi e giardini, e impegno pubblico. “Kalòs kaì agathós”, bello e buono, dicevano gli antichi Greci associando la bellezza alle qualità morali. Ben vengano i sindaci come il dottor Gentilini e la sua squadra, se la passione per il buon governo e il bene della città si traduce anche in un rinnovato rispetto per lo spazio pubblico in cui abitano tutti: le strade, le piazze, i giardini, gli orizzonti di terra e di cielo. E se, fin dal lontano Duecento, Treviso “di chiare fontane tutta ride”, come scriveva Fazio degli Uberti, è vero che la città oggi può sorridere ancora, felice di mantenere intatta la sua bellezza antica e la sua grazia, tra canali d’acqua lucenti, scorci architettonici di assoluta eleganza e balconi in fiore. E chissà che un numero crescente di italiani possa dire, come tanti trevigiani: “Vivo nel bello, dunque sono”.

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