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Il pane di ieri

05/01/2009

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Per chi e che cosa suonava (una volta) la campana”? No, non è Hemingway. E’ Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica di Bose, che nel suo poetico “Il pane di ieri”, appena uscito per Einaudi, condivide con noi il racconto della sua infanzia e giovinezza nel Monferrato. Un libro che è stato per me un pensato regalo di Natale, capace di regalarmi con lievità, leggendo e assaporando, emozioni e commozione. Lo suggerisco come dono alle persone che amiamo, ma anche a se stessi, per la capacità di riportarci, con semplicità e poesia, senza idealismi né voli nostalgici, in un mondo quasi del tutto perduto. Chi di noi è nato in campagna, riconoscerà in queste pagine molti echi del proprio passato, o del passato raccontato dai nonni, della nostra terra e della saggezza dura di chi viveva radicato nel fare contadino. Un viaggio nella memoria sensoriale, dove sono protagonisti i paesaggi, gli odori della terra, il profumo del cibo, anche povero, preparato con grande cura, la fatica di vivere, le solitudini di ieri, accettando fino in fondo il proprio dovere, i ritmi di una vita più scandita dal tempo delle stagioni e dei giorni, dal duro lavoro nelle vigne, accese con i colori ardenti dell’autunno, dall’attesa sempre incerta del raccolto. Un viaggio della memoria, anche nella capacità di accompagnare coralmente i grandi eventi della vita con la presenza affettuosa di amici e familiari. Non solo il matrimonio e la nascita, ma soprattutto la morte, in casa, benedetti e pacificati. Una consolazione oggi perduta per i più.
Un viaggio sonoro, di cui sono protagoniste anche le campane, che una volta abitavano i nostri paesi raccontando a tutti ciò che contava. «Di notte, per esempio (le campane) tacevano e il loro improvviso rintocco a martello annunciava un incendio in qualche cascina e richiamava tutti ad accorrere per spegnere il fuoco... Di giorno, invece, suonavano per avvertire che qualcuno stava per morire, “suonavano l’agonia”, e il numero diverso dei rintocchi rivelava se era un uomo o una donna, sicché ciascuno poteva immaginare un nome e un volto dietro quel suono: allora ci si affacciava sulla soglia di casa per vedere la direzione presa dal prete che, accompagnato da un chierichetto con un ombrello bianco, portava il viatico al moribondo. Poi, con un suono diverso, le campane ne annunciavano la morte e si univano alla tristezza dei funerali, indicando con il rintocco della campana più grossa – chiamata appunto campanone – l’arrivo della salma. Mesta e solenne sembrava accompagnare con il suo timbro profondo i passi della processione: sì, allora nessuno moriva solo.”
La conoscenza intuitiva e profonda del ritmo misterioso della vita fa accettare al piccolo Enzo, a soli 8 anni, la morte della madre poco più che trentenne, gravemente cardiopatica. E’ la campana che lo chiama in casa, mentre è fuori a giocare, in tempo perché lei si accomiati da lui, figlio unico, e dal marito, con parole serene: “Vedrai, io di là farò più di quanto ho potuto fare di qui per te...”. Momenti e parole che aiutano a superare la frattura dolorosa dell’assenza, del vuoto in casa, con una promessa di presenza, di protezione affettuosa, di dolcezza essenziale, un modo sobrio per dire “veglierò su di te, non resterai solo”. La grande benedizione di chi ha fede è credere nella continuità della presenza, nella forza dell’affetto che dai luoghi della casa si radica nei luoghi dell’anima, e continua ad essere dialogo, colloquio notturno silenzioso, richiesta di consiglio e conforto, nei giorni difficili e nelle notti in cui l’assenza della madre, per un bambino, può pesare ancora di più.
Ci sono i gesti antichi della preparazione di cibi tradizionali, i tempi lenti che fanno del cucinare un tempo di intelligenza, perché aiutano a concentrarsi e a pensare. C’è lo sguardo dell’uomo intenso che al compiere i 65 anni accetta il grande passaggio verso la vecchiaia, e chiude nella memoria molti cerchi del passato, riaprendoli con noi. Cerchi dove i grandi maestri erano e sono uomini e donne “soli”, con una vita segnata dalla solitudine nelle sue varie forme. Dove l’orto diventa una grande metafora della vita spirituale: «Perché anche la nostra vita interiore ha bisogno di essere coltivata e lavorata, richiede semine, irrigazioni, cure continue e necessita di essere protetta, difesa da intromissioni indebite. Solo così, nell’attesa paziente e operosa, nella custodia attenta, potrà dare frutti a suo tempo». E tra i frutti di questo lavoro dell’anima c’è l’accurata preparazione dell’ultima stagione, “perché il compito di ciascuno di fronte alla vecchiaia che incalza non è prevederla, bensì prepararla, colmando la vita di quanto può sostenerci fino alla morte”.
Il Dio delle piccole cose abita con grazia questo libro. Suggerendo con discrezione come la grandezza della fede e della ricerca teologica si possa radicare con forza serena, con gioia e sobrietà di toni, nei piccoli gesti quotidiani, nella capacità di apprendere da piccoli segni ed eventi, da presenze che oggi in molti consideriamo marginali se non inutili. E come la memoria personale, distillata e condivisa, possa diventare memoria collettiva, stimolo per altre memorie e altre emozioni semplici e profonde. Un invito implicito, anche, a iniziare l’anno con un viaggio nei propri ricordi, per capire e sentire meglio che cosa conti davvero per noi, che cosa meriti di essere coltivato e protetto, e che cosa, inessenziale o superato, meriti di essere lasciato con saggezza, con sollievo o con gratitudine, ma senza rimpianti. Un libro buono come il pane di ieri, essenziale.

Libri e lettura Memoria e ricordi / Amnesia Riflessioni di vita

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