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I talenti dei figli: quando il troppo amore offusca il giudizio dei genitori

22/09/2014

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

«Mio figlio è un genio». «Ha un’intelligenza pazzesca!». «Usa il computer come un informatico nato!». Mai come oggi i genitori hanno una visione iperbolica dei talenti dei figli. A piccole dosi, l’affetto fa velo: è normale. L’amore è un fattore di miopia percettiva in tutti noi: nell’innamoramento ma anche nell’affetto filiale, come nell’amicizia e persino nel lavoro. Probabilmente è anche una sorta di analgesico naturale che consente di ammortizzare i molti fattori di fatica, stress, delusione di cui è intrisa ogni relazione umana. I problemi insorgono quando la miopia diventa cecità assoluta. Quando si perde ogni principio di realtà e l’adorato pargolo è in tutto un bambino “speciale”, solo o proprio perché è l’amato nostro figlio, indipendentemente dalla verità delle sue doti, dei suoi talenti e dei suoi limiti.
La questione resterebbe nei piccoli romanzi familiari, se le sue conseguenze non rischiassero di segnare tutto il futuro del pargolo medesimo. Il bambino, spesso figlio unico, viene cresciuto in una famiglia di adulti adoranti. La sua identità, il senso del suo valore, sono forgiati e incorniciati da questo coro idolatra che vede nel pargolo solo prodigi. Quando la creatura arriva a scuola, con l’aura di bambino speciale, lo scontro con il principio di realtà può essere deflagrante. Se il bambino non ha tutti nove e dieci, è evidente, la colpa è dell’insegnante. Se poi è negato per la matematica, o la fisica, o l’italiano, è chiaro, bisogna cambiare classe o scuola. Dopo le medie, anche quando il profitto scolastico depone per una serena normalità, magari con qualche vistoso limite nella concentrazione, nell’attenzione, nella motivazione o nella memoria, è ovvio, la creatura non può che fare il liceo. Con l’ambizione di cimentarsi poi nelle facoltà può ardue, ma di sicuro successo. Il tasso di abbandoni scolastici e universitari mostra con chiarezza la fallacia di molte percezioni genitoriali. Purtroppo sono poi i figli a pagare prezzi altissimi: dall’incapacità di accettare e gestire anche il minimo insuccesso al penalizzante sentirsi “una delusione continua”, dalla frustrazione di aver coltivato sogni irrealizzabili, alla sostanziale difficoltà di accettare un quotidiano deludente e demotivante. Per non parlare dello sperpero di energia e di denaro a perseguire ambizioni di professione e di carriera cui mancano le fondamenta: un reale talento per svolgerle.
Due libri aiutano a riflettere su questa dinamica di adorazione “a prescindere” che culla sinistri risvolti persecutori. Il primo: “Ragazzi, non siete speciali! E altre verità che non sappiamo più dire ai nostri figli” di David McCullough jr. (Edizioni Garzanti), scritto da un professore d’inglese il cui discorso ai suoi liceali a Boston ha avuto oltre due milioni di visualizzazioni su YouTube. Un discorso liberatorio, alla fin fine: che bello essere (e poter essere) normali, felici di esserlo, senza dover rincorrere le aspettative altissime di nessuno! E liberi di esprimersi, e di cercare di essere se stessi, con vite solide e serene, coerenti con la propria verità. Un discorso da ascoltare e meditare, soprattutto da parte dei genitori. Il secondo: “Class. Vite infelici di romani mantenuti a New York” di Francesco Pacifico (Edizioni Mondadori), che inizia con un brutale: «La realizzazione personale di un giovane borghese non vale il denaro che costa». Dove il punto non è solo il costo economico, ma soprattutto quello umano di inseguire sogni professionali velleitari, cui manca il primo ingrediente: il talento vero.
In buona sostanza: è necessaria una sana autocritica genitoriale, nella percezione dei figli. Uno sguardo amoroso sì, ma più misurato, capace di mantenere l’intensità dell’affetto senza perdere il principio di realtà. Un ascolto attento e non arroccato dei commenti degli insegnanti, quando più lucidamente individuano capacità e limiti, su cui merita che il ragazzo lavori e si impegni, se vuole migliorarsi. E se vuole far sbocciare anche i talenti veri che ha, perché non restino altrimenti sotterrati da quella sterile idolatria che li vedeva già immensi, senza impegno, senza disciplina, senza sforzo quotidiano. Con un’attenzione specifica ai talenti concreti che correttamente dovrebbero far scegliere una scuola professionale adeguata, e con solide prospettive occupazionali, invece che un liceo a tutti i costi, solo per soddisfare le irrealistiche aspettative di mamma e papà.

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