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Doping: motivazioni e rischi

12/09/2014

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

“Gentile professoressa, qualche settimana fa ho letto con molto interesse un suo articolo sul doping. Secondo lei, quali motivazioni profonde possono spingere un atleta a fare uso di queste sostanze, a rischio della propria salute e del proprio onore sportivo? Ed esistono cure che permettano di disintossicarsi e di smettere?”.
Nedo S. (Firenze)
Gentile signor Nedo, le rispondo molto volentieri, perché quella del doping è davvero una piaga sanitaria e sociale che rischia di estendersi a tutti gli ambienti sportivi, dai dilettanti ai professionisti. Le motivazioni al doping possono essere “espressive” o “difensive”.

Che cosa sono le motivazioni espressive?

Sono quelle che intervengono ai livelli medio-alti e alti della performance atletica, per potenziarla ulteriormente e garantire un successo remunerativo in termini di vittorie, immagine e guadagni. Proprio per questo motivo si accompagnano spesso a strategie molto sofisticate per farla franca: basti pensare al ciclista statunitense Lance Armstrong, che è riuscito a dribblare ben 250 controlli in una lunga carriera, prima di subire una squalifica retrospettiva e un’onta davvero planetaria.

Che cosa aveva usato Armstrong?

E’ stato dimostrato che, negli anni, aveva assunto eritropoietina (una sostanza che serve ad aumentare il numero dei globuli rossi e quindi l’ossigenazione muscolare), dopanti del sangue, steroidi e l’ormone della crescita (Growth Hormone, GH), che ha un effetto anabolizzante sui muscoli. Quest’ultimo è difficile da scoprire per la forte somiglianza con il GH endogeno, la secrezione pulsatile, ossia non costante, e la forte variabilità di livelli fra una persona e l’altra.

E le motivazioni difensive?

Si parla di motivazione difensiva quando la spinta ultima non è agonistica e legata al successo, ma correlata a un’inadeguata immagine corporea, a disistima, a un profondo senso di frustrazione e fallimento: sentimenti negativi spesso radicati più nella vita privata dell’atleta, professionista o amatore che sia, che non nelle vicende sportive vere e proprie.

E' possibile liberarsi dal doping?

Sì, ma occorre una motivazione forte: una condizione che si verifica, per esempio, quando si vuol tornare a gareggiare dopo essere stati scoperti, quando si è al termine della carriera, o quando si verifichino problemi di salute acuti o cronici, anche sul fronte sessuale. La terapia è invece resa molto difficile dalla banalizzazione del comportamento illecito, con affermazioni del tipo «Sto benissimo, non ho nessun problema di salute», «E’ tutto terrorismo», «Non faccio del male a nessuno». Per inciso, si fa del male, eccome, rubando la vittoria a chi gareggia pulito!

Come ci si cura?

Le strategie di intervento sono farmacologiche e psicoterapeutiche, e possono includere tecniche di meditazione. Purtroppo gli studi sulla loro efficacia sono pochi. I rischi di cronicizzazione del comportamento illecito restano quindi alti, soprattutto per effetto del sistema di ricompensa di cui parlavo nell’articolo che lei cita (e disponibile al link sotto indicato): se si vince una gara dopo aver usato un anabolizzante, e si perde quella in cui non lo usa, si crea molto rapidamente un meccanismo condizionato di dipendenza, per cui non si riuscirà più a competere se non ci si è dopati. Questo è un rischio particolarmente forte negli adolescenti, il cui cervello, estremamente plastico, tende a formare circuiti neuronali che si consolidano come i binari di un treno, condizionando il comportamento e le decisioni. La conclusione, quindi, è una sola: meglio non cominciare nemmeno.

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