Lo evidenziano i due infanticidi di figli neonati nel giro di un anno, da parte di una ragazza maggiorenne, universitaria, di buon livello economico. Chiara Petrolini agisce lucidamente, con cinica premeditazione e freddezza, come se quei due bambini non fossero i suoi stessi figli, esserini cui viene tolto brutalmente e senza alcuna colpa il diritto di vivere, ma oggetti disturbanti di cui liberarsi, con l’unica preoccupazione che il loro cadavere sepolto nel giardino di casa non faccia odore.
Fra le tante parole sui vari disagi sottostanti, un’avvocatessa osa dire in diretta Tv che la ragazza «le fa tenerezza, per la sua solitudine». A qualcuno fanno tenerezza i due bimbi ammazzati? E Chiara, che li ha eliminati come topi, ha mai avuto un palpito di tenerezza verso qui bimbi, i suoi figli non ancora nati, che premeditava di uccidere con spietata efficacia? Con un cinismo ancora più grave e tragico, nella sua lucida recidività? Non fosse stata scoperta, ne avrebbe ammazzati altri tre o più, con la stessa indifferenza? Protetta di fatto dalla “cecità” emotiva di genitori e fidanzato?
L’assassino diciassettenne di Paderno Dugnano uccide con 69 coltellate prima il fratellino di 12 anni, poi i genitori: «Mi sentivo oppresso». Tutti a pontificare sul suo “disagio” e le presunte colpe dei genitori che non lo avevano capito. Quali sarebbero le colpe del fratellino? E si ammazzano i genitori perché “non ti capiscono”? A 17 anni, così come trovi la lucidità e l’energia per premeditare ed eseguire una strage familiare, dovresti trovare il coraggio e la forza per andartene di casa, rimboccarti le maniche, cominciare a lavorare e conquistarti un’indipendenza degna del nome. Questa sarebbe la risposta sana al “disagio”, non l’uccidere.
E’ sentenza di morte anche l’abbandono recidivo della piccola Diana di 18 mesi, lasciata sola in casa per giorni e giorni. Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo, osa fare un distinguo tra se stessa, che ha lasciato orrendamente morire di fame e stenti sua figlia per un anno e mezzo, un lento e cinico assassinio, e Chiara Petrolini, «perché io mia figlia non l’ho uccisa». Ha mai sentito la disperazione, la solitudine, il dolore, le ore e ore di pianto senza risposte, senza una carezza, senza un abbraccio, di quella piccola, indifesa bambina, sua figlia? Ha mostrato la stessa indifferenza e lo stesso spregio al diritto di vivere, e al dovere di non uccidere, Filippo Turetta, l’assassino spietato di Giulia Cecchettin. Senza dimenticare il delitto “senza movente” di Sharon Terzeni, che l’assassino, Moussa Sangare, ha ucciso «senza sapere perché, però prima le ho chiesto scusa».
Chiedere l’ergastolo e farlo scontare fino all’ultimo giorno, come invoca giustamente la maggioranza dell’opinione pubblica, può forse tranquillizzare le coscienze. Lascia tuttavia fuori fuoco il problema principale: la tendenza attuale a rendere “normale” il diritto di uccidere, a causa di svariati “disagi”, senza che gli assassini mostrino pentimento o senso di colpa. I complici di questa normalizzazione sono molteplici: anzitutto, quello slogan – «Nessuno tocchi Caino» – dal nome dell’associazione istituita nel 1993 contro la pena di morte del mondo. Purtroppo, l’attenzione al diritto di vivere degli assassini, e l’amplificazione delle loro presunte “ragioni”, sta portando con sé la negazione del diritto di vivere delle vittime. Siamo contro la pena di morte di dimostrati assassini, e nel nostro Paese consentiamo a chiunque di emettere ed eseguire una sentenza di morte in nome di vari “disagi”, con crescente senso di impunità?
La spettacolarizzazione mediatica della morte contribuisce al cinismo. Di fatto, la mancanza di senso morale e del valore della vita accomuna questi diversi assassini, punta dell’iceberg di un lassismo etico che sta cedendo anche sui comandamenti fondamentali del vivere. Quale educazione morale stiamo dando ai nostri figli? Come li prepariamo ad affrontare in modo costruttivo ed etico le difficoltà della vita? Io sto dalla parte di Abele. Voi, da che parte state?
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