«Sono nata in un piccolo villaggio dell’Africa centrale. A tre anni ho avuto la poliomielite: da bambina vivacissima, felice di correre e giocare, mi sono trovata completamente paralizzata alle gambe. Ma il peggio doveva ancora venire: nel mio villaggio natale la mia paralisi era vista come la conseguenza, la punizione per chissà quali colpe terribili dei miei genitori. La mia famiglia venne allontanata da tutti, per colpa mia tutti eravamo degli “out-cast”, degli emarginati fuori casta. I vicini ci bruciarono per due volte la casa, mio padre mi salvò appena in tempo. “Se restiamo qui, non ne usciremo vivi”, disse. Prese il coraggio a quattro mani e portò la famiglia qui, in Gran Bretagna. Qui ho cominciato a fare sport nella competizioni per atleti con handicap. Questo mi ha dato tanta gioia, tanto coraggio. Posso dire che sono stata felice. E ho capito una cosa importante, che mi ha cambiato la vita».
Nella quiete dell’albergo, nella deliziosa campagna del Cotswolds, il mio sguardo viene catturato da un’intervista sugli atleti paraolimpici, in onda sulla BBC. Volto bellissimo e luminoso, espressione carismatica, sguardo intenso, aggiunge: «Ho capito perché Dio ha voluto questo per me. Ho capito perché ho avuto la poliomielite. Il mio compito nella vita era prima provare su me stessa che cosa vuol dire essere paralizzati. Vivere con un corpo dimezzato, ma una voglia di vivere raddoppiata se non triplicata. Lo sport mi ha fatto riscoprire le tante altre potenzialità del mio corpo, il gusto della competizione, la fatica e la soddisfazione degli allenamenti, una vita piena di ritmo e di emozioni. Dovevo prima provare su di me l’impotenza di fare e poi la riconquista, piano piano, di una competenza forse perfino migliore. Perché una mente che ha capito il perché delle cose, anche negative, può fare meraviglie. Adesso ho trovato la mia vera strada e il senso di tutto quello che mi è successo: alleno le atlete, paralizzate come me, per le paraolimpiadi. Per loro il mio entusiasmo, la mia gioia di vivere, le vittorie atletiche che ho conseguito sono uno stimolo formidabile. Soprattutto, per loro è vitale sapere che io so. So che cosa provano perché l’ho provato. So cosa vuol dire ritrovarsi paralizzati, so che cosa vuol dire voler correre ancora, sentire la voglia nella testa e le gambe che non ascoltano più. Ma si può correre usando le braccia, usando la mente, usando il cuore».
Che lezione. Ascolto ipnotizzata. Amando come amo il movimento fisico, intuisco ancor più l’impatto tragico della paralisi. La telecamera si sposta su una delle allieve, vincente in una competizione nazionale. Una ragazza felice: «Lo sport e lei mi hanno cambiato la vita», dice guardando l’allenatrice con un sorriso di gratitudine che vale il mondo. «Nel piccolo paese dove abito (in UK) tutti mi sostengono, tutti mi incoraggiano. Lo sport mi ha dato obiettivi nuovi, tanta grinta: non pensavo di averne così tanta. L’ho scoperta dopo che mi sono ripresa dall’incidente. Sono stata investita e sono rimasta paralizzata dalla vita in giù. Ma la cosa più incredibile è come mi guardano gli altri, adesso, nel mio paese. Prima sentivo la compassione: “Povera bambina, che tragedia!”. Adesso sono in tanti a dirmi: “Brava, siamo tutti così fieri e orgogliosi di te!”. E sento il sorriso nello sguardo e l’incoraggiamento. E’ bellissimo! E’ come se anche loro mi dessero energia e forza con la loro stima e, sì, con la loro ammirazione».
Sì, lo sport è un salvavita per tutti, ad ogni età. Soprattutto quando si trovano allenatori competenti, che sanno usare la tecnica al servizio della mente, per capire l’allievo, e il cuore, per sentire l’allievo nelle sue emozioni, nelle sue vulnerabilità, nelle sue paure, per sentirne i talenti su cui puntare per aiutarlo a esprimersi al meglio. A volte, a rinascere, come per queste ragazze dopo la tragedia di una paralisi irreversibile. Quello “human, gentle touch”, quel tocco umano, gentile, che è l’essenza della maieutica, di socratica memoria. L’arte di far emergere il meglio dall’allievo, e non solo nello sport.
Quante parti di noi, e dei nostri figli, soprattutto, restano inespresse nella banalità quotidiana di vite trascinate, senza obiettivi e senza gusto? Uno spreco ancora più grande in chi ha la fortuna di essere sano. Per molti di noi, esteriormente sani, ma amputati interiormente, e a volte moralmente, ascoltare e guardare questi atleti coraggiosi è una preziosa lezione di vita. Da meditare.
Nella quiete dell’albergo, nella deliziosa campagna del Cotswolds, il mio sguardo viene catturato da un’intervista sugli atleti paraolimpici, in onda sulla BBC. Volto bellissimo e luminoso, espressione carismatica, sguardo intenso, aggiunge: «Ho capito perché Dio ha voluto questo per me. Ho capito perché ho avuto la poliomielite. Il mio compito nella vita era prima provare su me stessa che cosa vuol dire essere paralizzati. Vivere con un corpo dimezzato, ma una voglia di vivere raddoppiata se non triplicata. Lo sport mi ha fatto riscoprire le tante altre potenzialità del mio corpo, il gusto della competizione, la fatica e la soddisfazione degli allenamenti, una vita piena di ritmo e di emozioni. Dovevo prima provare su di me l’impotenza di fare e poi la riconquista, piano piano, di una competenza forse perfino migliore. Perché una mente che ha capito il perché delle cose, anche negative, può fare meraviglie. Adesso ho trovato la mia vera strada e il senso di tutto quello che mi è successo: alleno le atlete, paralizzate come me, per le paraolimpiadi. Per loro il mio entusiasmo, la mia gioia di vivere, le vittorie atletiche che ho conseguito sono uno stimolo formidabile. Soprattutto, per loro è vitale sapere che io so. So che cosa provano perché l’ho provato. So cosa vuol dire ritrovarsi paralizzati, so che cosa vuol dire voler correre ancora, sentire la voglia nella testa e le gambe che non ascoltano più. Ma si può correre usando le braccia, usando la mente, usando il cuore».
Che lezione. Ascolto ipnotizzata. Amando come amo il movimento fisico, intuisco ancor più l’impatto tragico della paralisi. La telecamera si sposta su una delle allieve, vincente in una competizione nazionale. Una ragazza felice: «Lo sport e lei mi hanno cambiato la vita», dice guardando l’allenatrice con un sorriso di gratitudine che vale il mondo. «Nel piccolo paese dove abito (in UK) tutti mi sostengono, tutti mi incoraggiano. Lo sport mi ha dato obiettivi nuovi, tanta grinta: non pensavo di averne così tanta. L’ho scoperta dopo che mi sono ripresa dall’incidente. Sono stata investita e sono rimasta paralizzata dalla vita in giù. Ma la cosa più incredibile è come mi guardano gli altri, adesso, nel mio paese. Prima sentivo la compassione: “Povera bambina, che tragedia!”. Adesso sono in tanti a dirmi: “Brava, siamo tutti così fieri e orgogliosi di te!”. E sento il sorriso nello sguardo e l’incoraggiamento. E’ bellissimo! E’ come se anche loro mi dessero energia e forza con la loro stima e, sì, con la loro ammirazione».
Sì, lo sport è un salvavita per tutti, ad ogni età. Soprattutto quando si trovano allenatori competenti, che sanno usare la tecnica al servizio della mente, per capire l’allievo, e il cuore, per sentire l’allievo nelle sue emozioni, nelle sue vulnerabilità, nelle sue paure, per sentirne i talenti su cui puntare per aiutarlo a esprimersi al meglio. A volte, a rinascere, come per queste ragazze dopo la tragedia di una paralisi irreversibile. Quello “human, gentle touch”, quel tocco umano, gentile, che è l’essenza della maieutica, di socratica memoria. L’arte di far emergere il meglio dall’allievo, e non solo nello sport.
Quante parti di noi, e dei nostri figli, soprattutto, restano inespresse nella banalità quotidiana di vite trascinate, senza obiettivi e senza gusto? Uno spreco ancora più grande in chi ha la fortuna di essere sano. Per molti di noi, esteriormente sani, ma amputati interiormente, e a volte moralmente, ascoltare e guardare questi atleti coraggiosi è una preziosa lezione di vita. Da meditare.
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