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Conservare o consumare?

08/12/2008

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Conservare o consumare? In tempi di crisi, di economia contratta e di orizzonti foschi, riaffiorano alla mente pensieri e atteggiamenti che credevamo obsoleti. Spinti dall’ottimismo fideistico nella crescita economica illimitata, ci eravamo lanciati ad acquistare tonnellate di cose inutili, a considerare il ricambio veloce di oggetti e beni come il segno di un marchio di qualità, di un atteggiamento vincente verso la vita e verso il mondo. Dimentichi dell’insegnamento vichiano, e, più in generale, di un minimo di coscienza storica che mostra con chiarezza come le vicende del mondo procedano, come il respiro, per espansioni e implosioni, ci siamo lasciati sedurre, chi più chi meno, dalla sirena insidiosa del progresso infinito. Dimentichi perfino di quel rudimento di fisica che ci mostra come l’entropia sia la regola del mondo vivente e inanimato, abbiamo creduto che ogni risorsa, naturale o artificiale, di questa povera terra, fosse illimitata.
Oggi, con questa crisi che non si risolverà in breve e che anzi deve ancora mostrare i suoi spigoli più duri, ci scopriamo tutti un po’ più poveri. L’elogio del consumo per il consumo non seduce più. E i più sensibili si interrogano già su quanto il conservare, con saggezza e intelligenza, non possa rappresentare una strategia adeguata non solo di sopravvivenza economica ma soprattutto emotiva.
Conservare, allora. Ma come e che cosa? Anche il conservare è un’arte, che procede, come le acque del mare, dalla vivacità delle onde superficiali alle sostanziale quiete delle acque profonde.
Vertendo la filosofia dei consumi innanzitutto sugli oggetti, è evidente che il primo obiettivo sarà interrogarsi su quali siano le cose di cui realmente abbiamo bisogno e quali davvero meritino di essere sostituite, invece che riparate. La moda, già da qualche anno, ha aperto uno scenario di opportunità con i capi “vintage”, i capi d’annata. Che le più sagge di noi, che non hanno buttato via i capi migliori solo perché “fuori moda”, si ritrovano nell’armadio a costo zero. Il modernariato, senza arrivare alle vette estetiche dell’antiquariato di qualità, incoraggia a recuperare mobili di atmosfera che possono rendere unico un arredo, riabilitando vecchi pezzi magari dimenticati in soffitte o garage. Si riscoprono gesti dimenticati: come il gusto di farsi le marmellate in casa. Che può sembrare un dettaglio, ma indica un recupero più profondo del gusto del fare da sé, invece che comprare tutto già fatto, sia per risparmiare, sia per riscoprire genuinità e sapori per i quali sembrava di non avere più tempo. Si torna ad invitare di più in casa, ciascuno portando qualcosa di preparato da sé: il divertimento resta invariato, anzi forse maggiore, la casa essendo un luogo certamente più caldo del ristorante, e i costi di un invito si riducono drasticamente, lasciando intatti allegria e piacere della convivialità. Torneranno lavori dimenticati: il ciabattino, l’arrotino, la sarta del quartiere, grazie a persone abili nell’aggiustare, sistemare, migliorare. Torna il bricolage, con il gusto di riscoprire di avere mani e cervelli per farsi le cose da sé. E l’homo habilis, che vive nel paleoncefalo di ognuno di noi, ritroverà il gusto del fare, dopo essere stato espropriato di questa parte essenziale del sé da un’economia che ti dava tutto pronto, tutto già fatto, tutto da consumare e buttare. E torneremo ad andare di più in bicicletta, a piedi o con i mezzi pubblici (sempre che lo Stato e gli Enti locali ne garantiscano un funzionamento decente). La domenica, ce ne staremo di più in paese o in città, senza correre come matti per intrupparci in code infinite. Saremo, forse, un po’ meno vittime di un inquinamento da camera a gas, e questo male certo non ci fa.
Più importante di tutto, la crisi ci porta a valorizzare un atteggiamento mentale, tipico dei tempi di recessione, che dentro il rischio di depressione porta alcune perle da non smarrire. Un diverso senso del tempo, innanzitutto: con minore frenesia, minore concitazione, maggiore lentezza. Una lentezza che può essere riflessiva, e non solo depressiva. Nella prima, c’è la implicita potenza delle gestazioni di qualità, che anticipano le grandi rinascite. Un diverso senso degli affetti: perché l’emergenza, l’ansia del futuro, la paura della solitudine e della crisi economica, riattiva il bisogno antico di attaccamento affettivo, di stabilità emotiva, di tornare alle radici e alle tane (le case) abitate con amore. Un diverso senso, spero, dello studio e del lavoro. Dopo l’ubriacatura di lavori inutili e d’immagine, si tornerà, mi auguro, a cercare una maggiore sostanza, fatta di competenza autentica, di disciplina, di etica del lavoro, e di passione di fare bene il proprio compito, che in troppi hanno dimenticato. Perché in questa qualità autentica e non simulata, ci sarà la chiave per salvare il proprio lavoro, il reddito ad esso legato, e per riemergere per primi e più potentemente dalla crisi. Forse, rallentando i ritmi e, soprattutto, recuperando valori più solidi, si tornerà a leggere di più, a fare musica in casa, a ballare “chez soi”, riscoprendo di poter essere felici, e forse più felici, con molto meno. Facendo un Feng-shui dell’anima, per liberarci di tutto l’inessenziale che il consumismo contemporaneo aveva fatto credere indispensabile. I cinesi, quando scrivono la parola “crisi”, combinano gli ideogrammi dell’opportunità e del rischio. Sta a noi cogliere in questa crisi economica pesante gli stimoli per ricoprire l’arte di conservare e valorizzare ciò che conta davvero nella nostra vita, a livello personale e sociale. Per trasformare una difficoltà in un’opportunità, come Seneca sosteneva lucido in tempi ormai lontani.

Consumismo Crisi economica

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