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Cinque buoni motivi per far bene il proprio lavoro

12/09/2011

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Il lavoro ti piace o lo subisci? Che cosa rappresenta per te? Quanto ti ci impegni perché ti dia soddisfazione mentre lo fai? Oppure lavori di malavoglia, solo per avere uno stipendio perché si deve pur vivere? Il lavoro occupa una parte dominante della nostra vita: il modo con cui lo viviamo finisce per determinare la percezione che abbiamo di noi e il giudizio complessivo sul valore e la soddisfazione della nostra stessa vita.
Viaggiando e osservando molto, ho visto, a parità di ruoli, anche semplici, atteggiamenti molto diversi: da un lato, giovani e meno giovani che ci mettono cuore, passione, cura, attenzione, intelligenza, garbo, gentilezza, concentrazione, impegno a risolvere i problemi, in particolare nei lavori che implicano un rapporto con altre persone. All’estremo opposto, indifferenza, rozzezza se non franca maleducazione, ottusità, inerzia, resistenza a “muro di gomma” nei confronti di ogni tentativo di aprire un varco nella passiva gestione del tempo e dei compiti, lo sguardo vacuo quando non irritante. Sottolineo a parità di ruolo, così si evita subito l’ambiguo scoglio di separazione tra lavori “belli” e lavori “brutti”. Sì, è vero, il lavoro dipendente e le mansioni di impiegato/a e di operaio/a hanno maggiore probabilità di essere poco soddisfacenti. Ed è vero che alcune professioni sono potenzialmente più gratificanti di altre. Tuttavia, anche in attività che costituiscono l’ideale professionale contemporaneo (il giornalista, il medico, il libero professionista, l’imprenditore, l’artigiano), se non altro perché si ritiene consentano una maggiore libertà, più gratificazioni e guadagni migliori, ci sono atteggiamenti diversi ed estese sacche di insoddisfazione e frustrazione, che portano a subire il lavoro, invece che ad abitarlo con gusto e voglia di farne una fonte di soddisfazione interiore, oltre che di reddito.
«Se lo stipendio è lo stesso – è l’obiezione principe del dipendente – perché mi dovrei impegnare?». Il perché sta nei vantaggi personali che derivano dal fare bene il proprio lavoro, soprattutto in una prospettiva evolutiva e di crescita professionale, massima quindi nei giovani. Vantaggi minimi, certo, se il lavoro ha la ripetitività ossessiva di una dura catena di montaggio, ma che crescono rapidamente nei lavori che implicano invece il rapporto con terzi, spazi decisionali e operatività concreta.
Il primo vantaggio è concretissimo e intrinseco al lavoro: più ci si impegna, meglio riesce, più ci dà soddisfazione, più diventa “facile”, più consente di avere gratificazioni di ritorno, se si ha la fortuna di lavorare con persone – colleghi, capi, clienti o allievi – che sanno apprezzare e ringraziare, anche con un sorriso. Un grazie garbato, iniziando dal/la commesso/a del bar, se è gentile e ti fa il cappuccino con il cuore, giusto per ricordare una piccola attenzione piacevole nella frenesia quotidiana.
Secondo, l’impegno mentale ed emotivo positivo ha un’azione antistress, se si riesce a sorridere: si sta meglio con se stessi e con gli altri, e gli indicatori di benessere restano sintonizzati sui colori della salute e del buonumore.
Terzo, impegnarsi a fondo crea – entro certi limiti – positività e perfino cambiamento intorno a sé, se si hanno interlocutori mentalmente sani, educati e capaci di cogliere la differenza tra un lavoro fatto per dovere e un altro svolto con impegno e dedizione: tutti preferiamo un negozio o un bar dove il personale è gentile e “ci mette del suo”, ed evitare luoghi e servizi in cui si respira maleducazione, indifferenza e ottusità.
Quarto, la dedizione crea e mantiene le condizioni mentali per crescere professionalmente, per arrivare a fare un lavoro che dia sempre più soddisfazione. Il ragazzo sveglio e motivato, che fa il cameriere, decide di lavorare all’estero, fa corsi di lingua e di specializzazione, potrà fare il maitre o aprire un ristorante o un bar suo. L’impiegata attenta, che lavora con il cervello, che ha soddisfazione a far bene le sue mansioni e trova gusto nel risolvere i problemi quando si presentano, vive meglio, oltre a diventare preziosa per chi ha la fortuna di averla con sé. L’infermiera competente e gentile è amata dai pazienti, spesso più dei medici: perché la sua sollecitudine è terapeutica. E vive meglio. L’insegnante che si aggiorna, che prepara con cura le lezioni anche dopo vent’anni, e riesce a motivare ed entusiasmare bambini o adolescenti ha un potenziale di soddisfazione personale, ma anche relazionale, formidabile, che i genitori intelligenti dovrebbero saper riconoscere e apprezzare, mentre purtroppo è un potenziale spesso trascurato.
Infine, aspetto sostanziale, un lavoro amato e svolto con cura cambia il rapporto con il tempo: che è vissuto e non subìto o annientato, in attesa di uscire.
Vantaggi di salute, emotivi, professionali, evolutivi: più facili per gli estroversi, gli attivi per carattere, che sanno trovare in ogni cosa il lato positivo e stimolante. Il carattere senza disciplina, senza capacità di mantenere un certo livello di impegno e qualità professionale anche quando si è stanchi, il periodo è difficile o il contesto poco gratificante, finisce per arrendersi alla palude, al tiriamo a campare, al minimalismo professionale. Continuare ad aggiornarsi, puntando sulla professionalità e sulle qualità umane, aumenta la competitività personale sostanziale e allena la capacità di adattarsi a un mondo che cambia, di trovare nuove soluzioni, nuovi lavori, nuove opportunità. Per restare a galla nelle crisi e andare avanti, per vivere meglio, con più autostima e più futuro, bisogna crescere in competenza e flessibilità, cercando anzitutto la soddisfazione intrinseca di fare bene – e con passione – quello che si fa.

Autorealizzazione Lavoro Riflessioni di vita

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