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Autosabotaggio, la trappola fatale

06/02/2017

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

“Autosabotaggio”, o, con anglicismo, “auto-handicapparsi” (self-handicapping): oggi più di ieri pratichiamo con un certo zelo comportamenti di fatto autodistruttivi, che ci rovinano la vita personale, gli amori, lo studio e il lavoro. Esempio concreti: tutti gli alibi – e i comportamenti associati – che ci raccontiamo e/o mettiamo in atto per giustificare un fallimento, cercando di “salvare” il nostro Io dalla vergogna o dall’umiliazione di aver mancato il risultato. «Ecco, succedono sempre tutte a me», «Mi va sempre tutto storto», «Non è colpa mia se…». In realtà, dietro a queste frasi genericamente autoassolventi, troviamo comportamenti precisamente autolesivi. Possono essere il far tardi, mangiare o bere troppo la sera prima di un appuntamento o di un esame importante, e trovarsi poi poco lucidi il mattino dopo, con un rendimento perdente; la telefonata importante che non abbiamo fatto, e ci ha fatto perdere un’opportunità professionale, le frasi impulsive e infelici con cui ci giochiamo un rapporto, il trovarsi impegni extra che impediscono di far bene i compiti quotidiani prioritari, e così via.
Gli studiosi del fenomeno distinguono in effetti due forme, spesso confluenti: il raccontarsi l’autosabotaggio (“claimed self-handicapping”, CSH), in cui un soggetto parla di condizioni che bloccano le sue performance – a scuola, nell’amore, nei rapporti umani, nel lavoro – per farsene un alibi, un’autogiustificazione. Oppure il mettere in atto comportamenti autosabotanti (“behavioral self-handicapping”, BSH), obiettivabili anche da terzi, come i genitori, gli amici, gli insegnanti. Spesso l’autosabotaggio peggiora i disturbi dell’attenzione e della concentrazione, minando la capacità di apprendere, fin dai primi anni di scuola. Ed è favorito e consolidato da due pensieri “validanti” altrettanto pericolosi: «Si vede che doveva succedere!», dove diamo all’errore un valore cosmico-esistenziale, come se fosse intervenuta una volontà superiore, mentre dipende solo da nostri errori, omissioni e mancata assunzione di responsabilità; e il «Poverino/a, non è colpa sua», dell’insegnante, degli amici, degli allenatori, validazione negativa in cui purtroppo eccellono troppi genitori d’oggi.
Qualcuno inciampa nell’autosabotaggio e nell’autolesionismo saltuariamente. Molti lo fanno d’abitudine. I giovani che già hanno praticato il self-handicapping confluiscono poi nel grande gruppo di coloro che non studiano, non seguono corsi di formazione e non lavorano, i cosiddetti NEET (Not engaged in Education, Employment or Training). Sono più di due milioni, in Italia. Poco consapevolmente stanno però facendo di fatto dell’autosabotaggio uno stile, comportamentale e di vita, con esiti nefasti.
Come salvarsi da se stessi e dalla propria autodistruttività, più o meno consapevole? Ecco il primo punto: fare un bell’esame di coscienza (un allenamento tutto da ricominciare!) per capire se stiamo diventando degli autosabotatori. Basta riconsiderare quante volte abbiamo fallito un obiettivo, o abbiamo “reso” al di sotto delle aspettative e delle possibilità, o ci siamo messi da soli in condizioni molto difficili. Basta ascoltare come poi raccontiamo ad altri quello che è successo: la ricerca dell’alibi auto-giustificatorio è già lì. E i genitori dovrebbero drizzare le antenne, invece di inserire il disco del ”poverino”, vittima degli insegnanti incapaci.
Secondo, cogliere i segni: la facilità a distrarsi, spesso figlia degenere del fare molte cose contemporaneamente (“multitasking”), è una causa potente di autolesionismo. Rieduchiamoci, e insegniamo ai figli, a fare una cosa alla volta e bene. Se stai studiando, stacca il cellulare e non navigare su Internet se non per approfondimenti attinenti a quello che stai studiando. Metodo e disciplina sono sicuri alleati delle performance di alto livello nello sport come nella vita: il calciatore che si sta allenando non risponde mai al telefono, mentre le distrazioni continue sono la prima causa di performance fallimentari.
Terzo, importantissimo: bisogna imparare ad ascoltare e superare le emozioni negative – rabbia, irritazione, umiliazione, vergogna – che ci assalgono di fronte a un fallimento. D’altra parte, solo se ci assumiamo la nostra responsabilità e comprendiamo le ragioni dell’errore, potremo evitare di ripeterlo. Altrimenti, la ricerca dell’alibi o, più sottile, la stessa preparazione dell’alibi con il comportamento autolesivo, ci rimette di fatto nelle condizioni di ripeterlo, facendoci affondare in una palude di “profezie” negative che si auto-verificano.
Quarto, quando si riesce a organizzarsi bene, preparandosi accuratamente, per un obiettivo prioritario che soddisfi, e si ottiene il risultato desiderato con le proprie forze e capacità, è giusto premiarsi e fare di quell’esperienza il paradigma per ripartire con un comportamento più sano e funzionale all’autorealizzazione.
Quinto, e indispensabile per genitori e insegnanti, è essenziale rieducare i nostri figli e allievi (ma anche noi stessi, se siamo degli autosabotatori seriali) ad adottare una sana routine, con metodo e disciplina, per riuscire a realizzare i nostri progetti: che sia il fare un po’ di attività fisica, mettersi a dieta, imparare una lingua, prepararsi a un esame o a un concorso. Un buon metodo e il rispetto delle regole e del tempo, che noi stessi ci siamo dati, può aiutarci a cambiare: da autosabotatori ad autorealizzatori. Una bella sfida, davvero.

Adolescenti e giovani Autorealizzazione Autosabotaggio Educazione Genitori e figli Riflessioni di vita

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