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Accarezzami, maturerò

12/05/2008

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

Che cosa succede ad un bambino prematuro? Subisce un trauma tremendo: perché nasce impreparato alla vita, ed è costretto a restare solo, in un nido supertecnico che di umano ha ben poco. Catapultato fuori dal liquido amniotico, dove si muoveva in pace, privato di tutte le sensazioni e le emozioni che gli arrivavano attraverso la madre, il bambino prematuro resta disperatamente solo. Tecnologie sofisticate consentono oggi di rianimare e tenere in vita bambini anche piccolissimi, alla 24a settimana di gestazione, che restano per mesi nelle unità di cura intensiva. Soli per la maggior parte del tempo, con contatti fuggevoli, limitati e associati di regola a manovre invasive e dolorose (prelievi, intubazioni, sondini vari). Il prezzo della prematurità, spesso, è molto alto: gravi lesioni cerebrali, deficit intellettivi e motori, legati alle cause della prematurità, oltre che alla nascita anticipata. Anche quando gli esiti cerebrali sono buoni, tuttavia, la prematurità e la solitudine ad essa associata comportano comunque una maggiore vulnerabilità a disturbi affettivi, e, soprattutto, alla depressione. Basti dire che il rischio di depressione negli adolescenti che erano nati prematuri è di 11 volte superiore rispetto ai bambini nati a termine. Di fatto, l’onda lunga della ferita emotiva dovuta ad una prolungata ospedalizzazione senza conforto affettivo, senza la mamma per la maggior parte del tempo, può segnare tutto il futuro del bambino. Qual è il punto? Il dramma del prematuro non è solo la vulnerabilità biologica, ma la grande solitudine affettiva. E’ possibile ridurre questa profonda infelicità, che aggiunge dolore fisico ed emotivo ad una nascita già traumatica? Sì: con le “mamme canguro”, pratica che in alcune neonatologie è possibile da alcuni anni. La mamma tiene il bambino sul seno, a contatto con la propria pelle, e gli parla e lo accarezza, per una o più ore al giorno. Questo ha già dato risultati straordinari: i bambini accarezzati maturano prima, raggiungono prima l’autonomia respiratoria, crescono meglio di peso, dormono meglio, hanno indici di crescita psichica migliori. Insomma hanno tutti gli indici biologici e comportamentali più favorevoli. Ma si può fare molto di più: affinché le pratiche pionieristiche e positive di alcuni centri pilota diventino pragmatica dell’accudimento dei prematuri in tutte le nostre neonatologie. Seguendo l’esempio della neonatologia dell’Ospedale Sant’Anna di Torino, che in questi giorni ha reso possibile l’accesso ai prematuri 24 ore su 24. Questo consente la massima flessibilità di orari e, soprattutto, la possibilità che le mamme (o i padri) che lo desiderano possano stare a contatto di pelle con il piccolo per molte più ore al giorno, mattino e sera, per esempio, o anche durante la notte. Oppure durante le manovre invasive e dolorose. Uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista “Pain” da De Sousa Freire e collaboratori ha dimostrato che se il prematuro sta in braccio alla mamma mentre viene effettuato un prelievo doloroso mostra segni di dolore significativamente più bassi rispetto ai piccoli cui la manovra viene praticata nella culla, anche quando al bambino viene data acqua e zucchero prima del prelievo. La presenza rassicurante della madre dovrebbe essere garantita in tutte le situazioni in cui il bambino è ospedalizzato, ancora più quando viene sottoposto a manovre dolorose. Perché il dolore è pesante in sé. E perché i bambini, anche piccolissimi, ricordano. Non ricordano forse l’evento specifico con le modalità con cui lo fa l’adulto, ma ricordano emozioni, sensazioni, atmosfere, odori. E il dolore non confortato, non consolato, non attenuato dalla presenza amorosa della mamma è l’esperienza più atroce e indimenticabile che un bambino possa fare. Ovvio, dirà qualcuno. Mica tanto: se per decenni i prematuri sono rimasti, e restano ancor oggi, isolati per la gran parte del tempo nelle neonatologie di tutto il mondo, significa che il loro bisogno affettivo è stato trascurato a favore di cure crescentemente tecnologiche, molto efficaci ma poco umane.
Perché questo? Storicamente, il primo obiettivo della neonatologia è stato aumentare la sopravvivenza dei prematuri, attraverso l’ospedalizzazione e la crescente professionalità delle cure. Fino agli anni Ottanta, l’obiettivo dei neonatologi era individuare terapie sempre più efficaci per salvare i piccoli, nelle migliori condizioni fisiche possibili, con la massima attenzione a evitare le infezioni, garantire il raggiungimento dell’autonomia respiratoria e limitare i danni cerebrali e somatici. Questo però è avvenuto al prezzo di una prolungata separazione tra la mamma e il piccolo, per paura soprattutto delle infezioni, proprio nella fase più critica della vita. Una separazione pesantissima per entrambi, perché va a ledere il bisogno di attaccamento che è alla base di un amore materno di qualità, per creare quel calore, quella tenerezza, quella dedizione che (solo) il contatto precoce col piccolo può dare. Per il piccolo, il trauma è ancora maggiore: senza la mamma vicino, senza il contatto della sua pelle, senza il suo odore, senza la sua voce, il bambino non riceve quel nutrimento affettivo, quella rassicurazione, quella dolcezza che sono altrettanto importanti delle cure fisiche. Tanto vero che anche quando le cose vanno bene da un punto di vista strettamente biologico, quella solitudine prolungata, interrotta solo da cure invasive, può segnare per sempre il futuro del piccolo. D’altra parte, mettiamoci nei panni di un prematuro che piange, che subisce manovre dolorose più volte al giorno, che ha disperatamente bisogno di qualcuno che gli voglia bene, che lo coccoli e lo consoli, e resta solo, per la maggior parte del tempo, per mesi e mesi. Come pensare che questo non lasci cicatrici permanenti nella sua mente e nel suo cuore?
E allora, che cosa possiamo fare, in concreto? Rendere sempre più umano il periodo dopo la nascita prematura, per mamma e bambino. E riflettere su quanto i piccoli abbiano bisogno del contatto di pelle con la madre, anche se nati a termine. Perché solo quel calore, quel profumo di mamma, quella voce possono consolare e dare fiducia nella vita, altrettanto (e forse più) del cibo. L’amore che cura è prezioso ad ogni età, ma soprattutto per i più piccoli. E dobbiamo ripensare anche alle separazioni precoci e prolungate, quando le mamme riprendono (troppo) presto il lavoro, e per il bambino comincia lo stress continuo di asilo-nido e baby-sitter. Almeno la sera, e la notte nel lettone, teniamo il bambino a contatto di pelle. L’amore che cura non ha bisogno solo di dolci parole, ma di un contatto reale e prolungato con la mamma, perché questo è il bisogno primario del neonato, prematuro o nato a termine che sia: un bisogno insopprimibile e ineludibile, se vogliamo che cresca felice. O almeno sicuro e sereno.

Bambini Contatto fisico Parto vaginale / Parto cesareo Rianimazione e cure intensive

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