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La medicina in cui credo

04/09/2007

Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica H. San Raffaele Resnati, Milano

A colloquio con Alessandra Graziottin

Perché ama la medicina?

Perché è una professione meravigliosa in sé, e la più giusta per il mio temperamento, la mia passione etica, il mio gusto della conoscenza scientifica e umana. Sono ginecologa e oncologa. Mi piace capire la fisiopatologia, il perché di un sintomo, il perché di un segno con cui il corpo dice che qualcosa non va, che si è incrinata la musica biochimica, la melodia segreta che regola la nostra vita. Mi piace fare sempre, in ogni paziente, un esame obiettivo completo: senza perdere mai di vista l’anima, i sentimenti, le emozioni della persona che ho di fronte. Una semeiotica antica, l’arte dello studio e dell’ascolto di sintomi e segni che il corpo invia, a torto dimenticata.

In ogni buon inizio c'è tutta la storia. Ci parla della sua esperienza nei reparti di Oncologia?

Ho cominciato a lavorare quasi trent’anni fa, ancora studentessa, con pazienti operate per tumori ginecologici o alla mammella, nel reparto di Ginecologia Oncologica dell’Università di Padova. Ho vissuto l’esperienza di molte giovani donne che dopo l’isterectomia erano entrate in menopausa, magari a 25 anni. Su di loro non incombeva soltanto la minaccia di morte, anche ma una devastazione della femminilità, private com’erano della possibilità di avere un bambino, e non solo. I sintomi della menopausa precoce causata dall’ovariectomia, oppure dal danno irreversibile causato alle ovaie dalla chemioterapia e/o dalla radioterapia, possono essere devastanti. Pochi uomini sono capaci di accettare una relazione con una donna che non potrà dare loro figli e con seri problemi di salute. La donna vive una crisi profonda della sua stessa identità femminile, della sua immagine corporea (specie dopo interventi mutilanti per tumore, o dopo chemio o radioterapia), della sua sessualità. Dopo interventi di questo tipo anche l’intimità della coppia cambia: il dolore, fisico ed emotivo, porta a una caduta del desiderio, spesso a una crisi dell’intera relazione.
Proprio condividendo queste drammatiche esperienze, ho sentito tutti i limiti della mia formazione medica, rigorosa sì, sul fronte biologico, ma carente sul fronte psicologico. Ho capito che dovevo preparami in più, anche sul fronte psicodinamico, se volevo curare meglio le mie pazienti. Così mi sono specializzata in Psicoterapia e sessuologia a Genova con la professoressa Jole Baldaro Verde, una persona speciale, con cui ho un rapporto profondo di affetto, di stima e gratitudine, che è costantemente cresciuto in tanti anni di collaborazione professionale, fatta di sintonie etiche, di rispetto reciproco e di amicizia.
La mia vita professionale, dunque, fin dagli esordi ha avuto a che fare con la nascita, l’amore e la morte, con la bellezza e il dolore di vivere.

Sui media lei è spesso intervistata su problemi che riguardano la vita sessuale. Donne insoddisfatte, che provano dolore nei rapporti… disturbi di cui oggi finalmente si parla, ma che sembrano difficilmente risolvibili. E' proprio così?

Purtroppo sì, ma solo perché l’approccio a questi problemi è sbagliato. “E’ un problema psicologico”, dicono ancora troppi medici, di fronte al sintomo dolore, anche sessuale. Non è così. Il dolore fisico ha sempre solidissime cause organiche: infettive, nervose, muscolari, vascolari, immunitarie, ormonali, distrofiche… Solo con una diagnosi accurata è possibile risolvere il problema.

Perché questo approccio è invece spesso trascurato?

Me lo chiedo spesso [risponde pensosa]. Mi sembra che la medicina clinica contemporanea abbia tre grossi limiti.

Quali?

Il primo è la perdita dell’attenzione alle basi multisistemiche delle malattie. L’iperspecializzazione ci ha fatto perdere di vista l’insieme. Per tornare alla signora che ha rapporti dolorosi, basta una visita accurata per evidenziare un ipertono doloroso (“mialgia”) dei muscoli del pavimento pelvico: il dolore provoca sempre (e non solo lì!) una contrazione difensiva dei muscoli che circondano la zona o l’organo dolente. Questo spiega la frequente comorbilità urologica, con le cistiti; sessuologica, con il dolore ai rapporti; ginecologica, con la vestibolite vulvare (la causa più frequente di dolore ai rapporti in età fertile); proctologica, con la stipsi. Basterebbe un medico attento ai sintomi associati al dolore ai rapporti, per migliorare o guarire tutti questi disturbi. Invece li si affronta uno per volta e con scarso successo. Bisogna superare la visione eccessivamente specialistica e riconoscere i denominatori comuni di molte patologie, specie in organi vicini, il coinvolgimento trasversale di diverse specialità, guardando alla persona nella sua interezza biologica e psichica, e non all’organo malato. La semeiotica medica, l’arte di decifrare i sintomi e i segni della malattia, è stata emarginata nell’iter di studio: anche questo è un segnale di crisi della medicina contemporanea. Pochi giovani medici sanno oggi fare una visita completa, leggendo i segni del corpo come in un libro aperto. Si fidano solo degli esami strumentali. Solo un’anamnesi accurata e una visita completa possono far formulare l’ipotesi diagnostica più pertinente che poi porta a scegliere i pochi esami davvero essenziali per confermare la diagnosi e ispirare le scelte terapeutiche più adatte. Tra l’altro quest’ottica è anche funzionale alla necessità di limitare i costi in medicina: non tagliando i finanziamenti a caso, ma scegliendo con intelligenza clinica quali siano gli esami davvero necessari in quel paziente con quei sintomi, al momento della consultazione.

Il secondo limite?

La perdita del rapporto umano e clinico con i pazienti ai quali bisogna dedicare un’attenzione globale. Il paziente, durante una visita ben condotta, descrive i sintomi: basterebbe ascoltarlo e osservarlo per aprire una finestra essenziale sulla diagnosi. Che spesso è sbagliata, proprio perché il medico non lo ascolta abbastanza. Pensi che una recente ricerca ha mostrato che il paziente viene interrotto dopo 18 secondi (!!!) da quando ha iniziato a parlare dei suoi sintomi. E anche se la diagnosi è corretta, la delusione umana per questa medicina superspecialistica e tecnologica, che ha perso la capacità di ascolto e di contatto umano, fa sì che i pazienti delusi da questa si rivolgano ad altre medicine. La crisi di fiducia che il paziente ha oggi nei nostri confronti è un segnale di allarme che dovrebbe indurre noi medici a una sana e necessaria autocritica, non le pare?

E il terzo limite?

Manca l’attenzione al dolore, come protagonista indipendente di ogni malattia. Questa è la carenza peggiore. A torto il dolore è considerato un sintomo ancillare, da eliminare e basta, senza averne prima capito il significato biologico, oltre che psichico. Il dolore va compreso nella sua complessità. Può essere nocicettivo, ossia indicativo di un danno in corso da cui l’organismo si deve difendere. O neuropatico, quando diventa malattia in sé, come in molte sindromi dolorose croniche. Per tornare all’esempio della signora che ha rapporti dolorosi: se la causa è una vestibolite vulvare, nel tempo il dolore vira da nocicettivo a neuropatico. Questo provoca iperalgesia – un contatto leggero viene sentito come se fosse un ferro bollente – e devasta la sua vita sessuale, personale e di coppia. Eppure ancora oggi viene detto a queste signore che “il dolore è tutto nella loro testa”. Ogni volta che neghiamo a queste pazienti una diagnosi ben fatta abusiamo di loro due volte: la prima perché viene loro negato il diritto a una diagnosi medica del dolore, senza la quale non c’è terapia adeguata. La seconda perché le esponiamo a violenze e pressioni da parte del partner e della famiglia, stufi di peregrinare da uno specialista all’altro sentendosi dire che “non c’è niente di fisico”, “è un problema psicologico” o, peggio, che “il dolore è un alibi per non avere rapporti”. La psicoterapia non può curare le cause biologiche: per la stessa ragione per cui chi ha mal di denti va dal dentista e non dallo psicologo! Il dolore sessuale ha bisogno di un trattamento eziologico che vada alle radici del problema: infettivo (la candida è sempre in agguato); infiammatorio (è il mastocita iperattivo che cronicizza il dolore e che, producendo il fattore di crescita dei nervi – il nerve growth factor, NGF, scoperto da Rita Levi Montalcini – determina la proliferazione delle terminazioni nervose del dolore fino a dieci volte la norma, causando iperalgesia); muscolare, per la contrazione difensiva in risposta al dolore; e, specificamente, neurobiologico, per agire sul sistema del dolore ma anche sull'umore, perché nel tempo si abbassa anche la soglia centrale del dolore e peggiora la risonanza emotiva del dolore stesso. Solo con un trattamento mirato e integrato è possibile guarire davvero.

La psicoterapia non va mai considerata come alternativa terapeutica?

Può essere preziosa e complementare, se ci sono conflitti pesanti, abusi o depressione, ma non alternativa. Il dramma, per chi soffre di dolore sessuale o pelvico, è il parcheggio in anni di psicoterapia generica, senza prima cercare una soluzione medica appropriata. Occorre sanare la frattura tra una medicina senz’anima e una psicologia senza corpo. Tra una scienza tecnologica orientata a indagini spesso invasive, priva di una vera attenzione per il paziente, e una psicologia senza corpo che, per esempio, ignora tutte le scoperte della neurobiologia. Mi riferisco a quella psicologia che rifiuta il farmaco con atteggiamenti miopi, pregiudiziali. Oggi ci sono psicofarmaci che, ben utilizzati, riescono a modificare le basi neurobiologiche di molti problemi psichici. Integrati con la psicoterapia, quando indicata, possono cambiare un destino di infelicità. Una possibilità che è colpevole non valorizzare, non crede? Il futuro è nella sinergia tra questi due mondi.

La medicina occidentale sta vivendo dunque una crisi?

Sì, e profonda, soprattutto di fiducia. La medicina occidentale avrebbe tutto per curare al meglio. Ma se perde di vista l’unicità della persona, e la centralità del rapporto umano tra il medico e il paziente, ha perso l’essenziale.

Ci potrebbe delineare il medico ideale?

Ha la competenza rigorosa del medico occidentale e nello stesso tempo sa stabilire un rapporto di qualità con il paziente. Faticoso? Sì, molto. A volte non ci riesco. E mi dispiace molto [passa un’ombra sullo sguardo]. Quando invece la paziente è contenta, quando sta meglio, quando il rapporto umano che si è creato è di qualità, lo sguardo felice che mi regala quando finalmente il dolore è alle spalle dà senso alla mia giornata. E’ un dono di energia che mi ricarica per aiutare un’altra donna che sta male [e si vede che qui passano torrenti di energia!].

Ci racconta una sua visita tipo?

Quando visito la paziente, non mi limito al seno, all’utero, ma faccio una visita completa. Mi capita così di evidenziare patologie in altri distretti, tiroide, fegato, intestino, problemi posturali, che aiutano a capire i sintomi diversi che la donna porta in consultazione e talvolta a risolvere meglio i problemi ginecologici.
Spesso la paziente è tesa, preoccupata, soprattutto se ha dolore. Comincio sempre la visita dall’alto, dalla tiroide. Se è una ragazza giovane, ed è una prima visita, le spiego tutto quello che faccio e perché. Se la vedo pensosa o sofferente, mi fermo, cerco il contatto degli occhi e chiedo che cosa la preoccupi di più. Molte si mettono a piangere, in quel momento. In quella pausa c’è lo spazio per le emozioni del dolore. Molti segreti pesanti escono lì. Lì, in quel momento di contatto dell’anima, inizia la vera terapia.
Poi spiego come rilassare i muscoli che circondano la vagina, perché la visita non faccia male. Se c’è dolore, piano piano esploro tutti i punti che lo possono causare: la “mappa del dolore”, la chiamo io. In ognuno chiedo alla signora l’intensità del dolore che avverte, da zero a dieci. La sede del dolore e la sua localizzazione sono infatti i più forti fattori predittivi delle cause biologiche di dolore! E utilizzo uno speculum da virgo, anche nelle donne che hanno rapporti, per limitare al massimo l’invasività.
Se la signora è accompagnata dal marito o dal fidanzato, e mi autorizza, spiego al partner dove e perché ha dolore, proprio durante la visita. Quando l’uomo si rende conto che ci sono cause precise, una diagnosi seria, una prognosi, una terapia, che non c’era nessuna invenzione, cambia atteggiamento. Da irritato, ostile, arrabbiato per anni magari di frustrazioni e di infelicità sessuale e coniugale, diventa attento, collaborativo. Vuole capire ed è giusto coinvolgerlo. A volte diventa anche più affettuoso, mi dicono le mie pazienti: “Adesso mi capisce anche lui”, aggiungono. Quest’attenzione alla semeiotica, e al perché del dolore, è molto apprezzata da ogni donna e da ogni coppia, e mi aiuta a stabilire un’alleanza di fiducia essenziale per il successo della cura. E’ un modo antico di essere medici.

Lei parla spesso di un'anima antica della medicina. A cosa si riferisce?

All’intuizione greca. Platone, nel Gorgia, parla per la prima volta di terapia come “therapèia theòn”, cioè sollecitudine, attenzione, rispetto, cura degli dei, del divino. Nell’Ippocrate, Platone ritorna sull’argomento e parla della “Therapèia toù sòmatos, tès psychès”, “terapia del corpo e dell’anima”, in cui il medico dovrebbe avere, per il corpo e per l’anima, l’attenzione, la sollecitudine, la cura che merita la scintilla di divino che è in noi. Nella Repubblica, parla di due tipi di medicina: la prima è riservata agli schiavi, ai quali si toglie solo il sintomo perché devono riprendere subito il lavoro; la seconda è per gli uomini liberi, ed è attenta al corpo, all’anima, e ai rapporti familiari. Questo diceva Platone.
La medicina contemporanea, così concentrata a uccidere i sintomi, è una medicina da schiavi. E’ la medicina della sollecitudine, quella per gli uomini liberi, che cerco di recuperare. Quest’anima antica del medico, una passione che dà senso alla mia esistenza [e il sorriso che la illumina dice che è lì davvero il senso della sua vita].

Cosa cercano oggi i pazienti?

Sicuramente qualcosa di più del recupero della salute. Al medico si chiede di soddisfare il legittimo desiderio di ritrovare lo stato di benessere, la qualità della vita. Pensi al linfoma di Hodgkin: la sopravvivenza alla malattia ormai raggiunge l’80 per cento, ma le terapie tolgono al paziente la possibilità di procreare. Oggi però si può salvare lo sperma prima della chemioterapia. Sul versante femminile, si utilizza la crioconservazione di frammenti di ovaio, o di ovociti, e si ricorre alla terapia ormonale sostitutiva che, se non può ridare il piacere della procreazione, può restituire quello della femminilità. Non basta sopravvivere: bisognerebbe aiutare a ritrovare il sapore alla vita… Per questo è necessario da un lato offrire alla persona malata tutte le articolate risorse che la medicina contemporanea ha conquistato, dall’altro valorizzare al massimo il rapporto umano tra paziente e medico. Perché è quest’aspetto fiduciario e affettivo, in senso alto e limpido, che catalizza la voglia di guarire e la fiducia nella possibilità di farcela. E che alimenta il coraggio, questa qualità straordinaria per credere che anche nei momenti più bui la vita potrebbe offrirci un’altra chance, che sta a noi cogliere ancora.

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